Tavola
rotonda
FEMMINICIDIO:
ANALISI,
METODOLOGIA E INTERVENTO IN AMBITO GIUDIZIARIO.
PER UNA
STRATEGIA CONCRETA DI LAVORO INTERDISCIPLINARE
Roma,
30.11.2012
ATTI DEL CONVEGNO, pubblicati da Luisa Betti sul blog “Antiviolenza” il 07.12.2012
Link: http://blog.ilmanifesto.it/antiviolenza/2012/12/07/femminicidio-i-tribunali-aprono-le-porte-al-confronto/
Introduzione
Antonella Di Florio – presidente sezione Tribunale di Roma
“Questo convegno è stato pensato nel
marzo del 2012 partendo da un articolo scritto da Luisa Betti sul Manifesto,
quando le vittime di femminicidio erano, in Italia, 37. Oggi sono diventate 117
comprese le vittime collaterali. Ora nessuno può più negare che l’uccisione
delle donne configuri una fattispecie specifica che risponde a presupposti
peculiari e nessuno ritiene che si possa più parlare genericamente di omicidio.
La particolarità dei moventi e delle circostanze in cui il delitto viene
commesso consente di coniare e pronunciare senza timore il termine di
femminicidio, rispetto al quale c’era stato finora qualche rifiuto, qualche
reticenza. Sono stati fatti alcuni passi avanti. Registriamo, infatti, percorrendo
gli eventi a ritroso: il grande
successo e la grande risonanza della giornata contro la violenza dello scorso
25 novembre; la sottoscrizione della Ministra Elsa Fornero, lo scorso 27
settembre, della Convenzione Europea di Istanbul depositata l’11.5.2011 che,
però, non è stata ancora ratificata dall’Italia – anche se la ratifica è stata
promessa entro la fine della legislatura; alcune proposte di legge – sia quella
presentata dalla senatrice Serafini sia quella proposta da Buongiorno-Carfagna
– che, con tutti i limiti anche contenutistici, si trovano però a fine
legislatura; e ancor prima l’approvazione della legge sullo stalking. A tutto
ciò si aggiunga anche il cambiamento del linguaggio giornalistico che pronuncia
la parola femminicidio prima desueta o meglio non coniata, la tendenza a una
migliore formazione degli operatori sociali e la creazione di una buona
sinergia fra gli Uffici di Procura e i centri di accoglienza delle donne
vittime, e la costante attività di lavoro e di sensibilizzazione dei Centri
Antiviolenza. Ma tutto questo – che già è un grande passo avanti – sembra non
bastare e sembra non arrestare il progressivo aumento del fenomeno. Il
femminicidio è diffuso spaventosamente in tutto il mondo. La Turchia, in
particolare, ha dato la paternità alla Convenzione Europea contro la violenza
sulle donne e la violenza domestica, ed è stato il primo paese a ratificarla
perché è uno degli Stati più coinvolti o almeno uno dei paesi in cui tale
spaventosa barbarie riesce ad essere registrata con dati raccapriccianti: il 42
% di donne con più di 15 anna ha subito violenza fisica e sessuale, e la
percentuale sale al 47% nelle campagne. Qui tra febbraio e marzo del 2012 sono
state uccise 52 donne, ma nello stesso periodo del 2010 ne erano state uccise 217,
e una su tre è stata uccisa perché aveva chiesto il divorzio. Il contenuto
della Convenzione di Istanbul – che cerca di unificare la lotta contro il
fenomeno in tutti i Paesi europei ma che è aperta anche a Stati fuori
dall’Europa – è altamente emancipatorio: dedica molte disposizioni alle forme
di prevenzione e molte altre alle forme di protezione delle vittime prevedendo
espressamente la necessità che venga, ad esempio, garantito il diritto al
risarcimento del danno, diritto già in passato affermato attraverso la
direttiva 2004/80 recepita in Italia con il Dlvo 204/2007 del quale peraltro si
hanno scarse notizie di effettiva applicazione: diritto che presenta una
particolare importanza perché la sua affermazione consente alla vittima di
liberarsi di ogni senso di colpa – che purtroppo permane ovi si scampi alla
tragedia – attraverso l’affermazione
dell’altrui totale responsabilità dell’aggressione. I principi affermati
nella Convenzione di Istanbul sono di grande importanza ma è altrettanto
importante che non rimangano lettera sulla carta e che vengano tradotti in
strumenti concreti sia per prevenire ulteriori reati sia per apprestare
un’adeguata protezione a chi dovesse ancora essere colpita dalla folle violenza
di una cultura che confonde l’amore con l’ossessione del possesso e giustifica
talvolta, ancora nel 2012 , il femminicidio con la lesione dell’onore. Questo
convegno è stato pensato come un’incontro – fra più operatori che dolorosamente
si sono dovuti occupare di casi di violenza – finalizzato a combattere per la
libertà delle donne a non morire: le
parole di tutti saranno un piccolo grande contributo per vincere questa
grande battaglia”.
Interventi
Barbara Spinelli – avvocata penalista, esperta di femminicidio – Giuristi Democratici, Piattaforma CEDAW, Convenzione NoMore!
“Il femmicidio e il femminicidio
sono due neologismi coniati per evidenziare la predominanza statistica della
natura di genere della maggior parte degli omicidi e violenze sulle donne.
Femmicidio è l’uccisione della donna in quanto donna (cifr. Diana Russell), e
nella ricerca criminologica include anche quelle situazioni in cui la morte
della donna rappresenta l’esito/la conseguenza di pratiche sociali misogine.
Femminicidio è “la forma estrema di violenza di genere contro le donne,
prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato,
attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità delle condotte
poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la
donna in una situazione indifesa e di rischio, possono culminare con
l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di
morte violenta di donne e bambini, di sofferenze psichiche e fisiche comunque
evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e
all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia” (cifr. Marcela Lagarde). Si
tratta di due categorie di analisi sociologica e criminologica. In alcuni
paesi, in particolare dell’America Latina, si è scelto anche di introdurre nei codici
penali le fattispecie o le aggravanti di femmicidio o di femminicidio. La
scelta spesso ha costituito un atto simbolico a fronte di situazioni di
sistematica violazione dei diritti delle donne, di altissimi gradi di impunità,
e di revisioni strutturali di impianti normativi che si caratterizzavano per
contenere già prima previsioni che al contrario erano apertamente
discriminatorie nei confronti delle donne. Dunque in quei luoghi l’introduzione
di fattispecie con una specificità di genere ha costituito una sorta di misura
speciale temporanea per accelerare il cambio culturale nel riconoscimento del
disvalore degli atti di violenza compiuti nei confronti delle donne. Certo un
simile utilizzo del diritto penale non troverebbe ragione nell’ordinamento italiano,
dove, come evidenziato dall’Onu, a fronte di un invidiabile, ma pur sempre
perfettibile, impianto normativo, resta il problema dell’implementazione delle
norme esistenti, viziata dal pregiudizio di genere. La violenza maschile sulle
donne costituisce una violazione dei diritti umani, della quale il femminicidio
costituisce la manifestazione più estrema. La codificazione del femminicidio
quale violazione dei diritti umani, è avvenuta nell’ambito del sistema di
diritto internazionale umanitario internazionale e regionale. In Italia, anche
rispetto ad altri Paesi europei, persiste una significativa difficoltà per le
Istituzioni e per i giuristi a concepire la necessità di un approccio giuridico
e politico alla violenza maschile sulle donne che la affronti quale violazione
dei diritti umani. Di conseguenza, le politiche e le riforme legislative
difficilmente rispondono all’esigenza di attuare le obbligazioni istituzionali
in materia – come prevenire la violenza maschile sulle donne, proteggere le
donne dalla violenza maschile, perseguire i reati che costituiscono violenza
maschile, procurare compensazione alle donne che hanno subito violenza maschile
– nei modi e nelle forme indicati dalle Nazioni Unite (Raccomandazioni
all’Italia del Comitato Cedaw e della Relatrice Speciale Onu contro la violenza
sulle donne, Rashida Manjoo). Si ricorda infatti che anche in materia di
violenza maschile sulle donne, gli Stati sono tenuti non solo a non violare
direttamente i diritti umani delle donne, ma anche ad esercitare la dovuta
diligenza per impedire violazioni dei diritti fondamentali posti in essere dai
privati. Si configura una responsabilità dello Stato, qualora i suoi apparati
non siano in grado, attraverso l’esercizio delle funzioni di competenza, di
proteggere, attraverso l’adozione di misure adeguate, il diritto alla vita e
all’integrità psicofisica delle donne, o qualora l’aggressione da parte di
privati a questi diritti fondamentali sia favorita dal mancato o difficile
accesso alla giustizia da parte della donna. In tal senso, si ricorda che
l’Italia nel 2009 è già stata condannata dalla CEDU (Majorano c. Italia). Il
problema principale che caratterizza l’inadeguatezza delle risposte
istituzionali alla violenza maschile sulle donne in Italia, è rappresentato dal
mancato riconoscimento da parte delle Istituzioni della persistente esistenza
di pregiudizi di genere, e dell’influenza che questi esercitano
sull’adeguatezza delle risposte istituzionali in materia. C’è infatti una vera
e propria tendenza alla rimozione, del fatto che fino a ieri il sistema
giuridico italiano era profondamente patriarcale: chi ricorda la data della
riforma del diritto di famiglia, che ha abolito la potestà maritale? E le
riforme del codice penale che abolito l’attenuante – per gli uomini – del
delitto d’onore e hanno spostato la violenza sessuale da reato contro la morale
a reato contro la persona? Il fatto è che quella stessa mentalità ancora oggi è
profondamente radicata nel pensiero degli operatori del diritto e, in assenza
di formazione professionale sul riconoscimento della specificità della violenza
maschile sulle donne e delle forme in cui si manifesta e degli indicatori di
rischio che espongono la donna alla rivittimizzazione, spesso si risolve in
sentenze dalle motivazioni anche palesemente sessiste ovvero nella mancata
ricezione di denunce-querele ovvero nella mancata adozione di misure cautelari
a protezione della donna, il tutto descritto dalle Nazioni Unite come il
persistere di atteggiamenti socio-culturali che condonano la violenza di
genere. La percezione di inadeguatezza della protezione da parte delle
sopravvissute al femminicidio in Italia risponde a un problema reale,
confermato dai dati ormai noti: 7 donne su 10 avevano già chiesto aiuto prima
di essere uccise, attraverso una o più chiamate in emergenza, denunce, prese in
carico da parte dei servizi sociali. Allora occorre anche da parte degli
operatori del diritto sollecitare i soggetti istituzionali preposti al corretto
adempimento delle obbligazioni internazionali in materia di prevenzione e
contrasto al femminicidio. In particolare sul fronte della prevenzione, con la
predisposizione di sistemi di efficace e uniforme raccolta dei dati sulla
vittimizzazione e sulla risposta del sistema giudiziario (con dati pubblici, disponibili
online e costantemente aggiornati); e la formazione di genere per tutti gli
operatori del diritto. Mentre sul fronte della protezione bisogna favorire la
formazione di sezioni specializzate, l’intervento anche in emergenza da parte
di “volanti specializzate”, e favorire linee-guida e protocolli di azione
nazionali da adottarsi per i vari uffici (protocolli di intervento per le forze
dell’ordine, protocolli della magistratura inquirente sulla conduzione delle
indagini, protocolli per l’adozione degli ordini di protezione, ecc.) per
facilitare anche l’organizzazione delle procure e dei giudici per le indagini
preliminari e per l’esecuzione della pena in maniera tale da trattare in via
prioritaria le situazioni di violenza nelle relazioni di intimità. A cui
aggiungere un maggiore coordinamento tra tribunale per i minorenni, procura
della repubblica, tribunale civile, anche attraverso la previsione di obblighi
di comunicazione, e il divieto di mediazione per i reati famigliari. Sul fronte
della persecuzione bisogna invece favorire l’immediata implementazione della
direttiva europea del 2012 sulle vittime di reato e sul fronte della
compensazione portare avanti la formazione professionale per favorire il
riconoscimento della specificità dei danni nei casi di violenza di genere.
Infine è necessario anche incentivare l’utilizzo del sequestro conservativo dei
beni dell’indagato in fase di indagini preliminari, introdurre misure atte ad
anticipare la finalità riparatoria della costituzione di parte civile nel
processo penale, attraverso interventi tempestivi che prevedano anche una
protezione economica della parte offesa”.
Maria Monteleone – procuratrice aggiunta, Procura della Repubblica di Roma
“È opportuno precisare che con
l’espressione femminicidio indichiamo non soltanto l’uccisione della donna, ma
anche ogni forma di violenza alla donna in quanto tale, cioè ogni azione
criminale che si caratterizzi per essere perpetrata da un uomo nei confronti di
una donna, alla quale spesso è stato (o è) legato da una relazione affettiva:
un marito, un convivente, un fidanzato, il padre, il fratello ovvero un uomo
comunque vicino alla donna. Il primo elemento di valutazione è che i dati
statistici stanno a dimostrare come il fenomeno della violenza che caratterizza
le relazioni familiari è oggettivamente molto grave, perché sono
statisticamente elevati i nuovi procedimenti che ogni anno vengono iscritti.
L’altro aspetto drammatico è proprio la forma e le caratteristiche della
violenza che si esercita sulle donne che assume connotazioni di notevole
pericolosità sotto il profilo della condotta e degli effetti che determina
sulle persone coinvolte, tanto che sempre più frequentemente si deve fare
ricorso alla adozione di misure cautelari, e quella di più frequente applicazione
è la custodia in carcere. Molte delle realtà familiari, all’interno delle quali
si scatenano forme di violenza indicibile, si caratterizzano anche per il fatto
che queste violenze si protraggono nel tempo con conseguenze devastanti per le
vittime che sono nella quasi totalità donne: si pensi ai nuclei familiari
multietnici che spesso sono portatori di culture molto diverse dalle nostre e
che spesso per lungo tempo restano impermeabili anche ai principi fondamentali del nostro sistema che non
riconoscono neppure che la donna sia soggetto di diritti in quanto persona e
che la considerano poco più che un oggetto. Le violenze che caratterizzano le
famiglie sono un numero molto elevato e soprattutto sfuggono a qualsiasi
controllo e spesso anche alla repressione. Non vi è dubbio che l’approccio con
queste forme di criminalità, proprio in ragione della loro specificità,
richiedono un approccio investigativo di tipo specialistico, perché solo chi
conosce approfonditamente le dinamiche tipiche di queste forme di violenza può
predisporre e assicurare interventi adeguati, e questo non può essere ignorato
da chi riceve la notizia di reato che deve rapportarsi con la vittima con
modalità adeguate e non certo burocratiche. Intendiamo dire che l’approccio
investigativo a queste forme di violenza non può prescindere da alcuni elementi
significativi. Si consideri che molti dei fatti che poi evolvono in condotte
aggressive di maggiore gravità, spesso sono preceduti da episodi che vengono
minimizzati e trascurati e che anche dagli organi inquirenti sono trattati come
banali liti tra vicini o condominiali, dando luogo all’avvio di molti
procedimenti che finiscono al giudice di pace rubricati come ingiurie,
diffamazioni, minacce o lesioni volontarie semplici: il tutto con gli intuibili
esiti. Bisogna avere la capacità e la disponibilità per attenzionare ogni
episodio di violenza che è portato a conoscenza delle forze dell’ordine. E’ un
dato acquisito che in pochi casi la violenza si ferma ad un singolo fatto,
mentre risulta che molto spesso ci si trovi di fronte a un crescendo di
gravità, e un intervento tempestivo che può impedire che la situazione evolva
in maniera ancora drammatica. Il piano di intervento, anche conseguente alla
entrata in vigore della legge n.172 del 2012 – conversione della Convenzione di
Lanzarote – impone la revisione delle relazioni tra P.M. e organi inquirenti
(si consideri gli effetti della modifica dell’art. 351 c.p.p.), che deve essere
capace di dare risposte concrete ed efficaci in tempi adeguati alle esigenze
delle vittime. Risposte che sappiano riconoscere il fenomeno e determinarsi di
conseguenza, impostando una strategia investigativa a vasto raggio mirata alla
tutela della donna e dei minori, assicurando anche un supporto e un’assistenza
economica, ove necessaria. Per restare sempre sul piano della concretezza, sia
pure molto velocemente, voglio fare alcune riflessioni e anche proposte di
interventi normativi che, a mio avviso, sarebbero necessari. Innanzi tutto si
deve assicurare un’effettiva e concreta assistenza legale alla vittima fin dal
momento in cui deve presentare la querela o la denuncia, e bisogna introdurre
modifiche legislative specifiche per la parte offesa anche nella fase delle
indagini preliminari. Occorre prendere atto che la vittima di questi fenomeni
criminosi riveste una posizione particolare in un sistema processuale, il
nostro, che è troppo sbilanciato a favore dell’autore del delitto, al quale
vengono assicurate le più ampie garanzie possibili. In tale ambito rientra il
ruolo fondamentale che deve essere riconosciuto alle associazioni a tutela
delle donne che svolgono un ruolo delicatissimo e che vanno potenziate. E’
innegabile come nei casi più gravi (e sono molti) sia necessaria una strategia
di sostegno e di presa di coscienza della vittima di tale sua qualità, ovvero
di farle acquisire la consapevolezza che è parte offesa nel processo e che deve
riappropriarsi dei propri diritti in quanto persona. Una delle constatazioni
più frequenti in questo tipo di investigazioni è che molte donne sembrano non
rendersi conto della gravità dei torti subiti, e in alcuni casi vi è anche l’esigenza di aiutare e sostenere
la donna in un percorso di ricostruzione come persona: e tutto ciò è
difficilmente conciliabile con i tempi e le regole del processo. Sul piano
giuridico bisognerebbe quindi valutare l’opportunità di alcune modifiche mirate
che prendano in considerazione la realtà dei fatti. E’ auspicabile che nel caso
di lesioni volontarie sia considerata come circostanza aggravante la qualità di
coniuge o convivente della vittima, e ciò potrebbe avvenire attraverso la
modifica del n. 2 dell’art. 576 c.p. (al quale rinvia l’art. 585), che
attualmente contempla come aggravante l’ipotesi del fatto commesso contro
l’ascendente o il discendente. A ciò aggiungerei l’introduzione di nuove e
specifiche misure precautelari che consentano al pubblico ministero (o
eventualmente anche all’ufficiale di p.g.) di disporre immediatamente e
provvisoriamente l’allontanamento dalla casa familiare e/o il divieto di
avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Tra i reati spia che
devono essere attenzionati in modo particolare, non vi è dubbio che debbano
esserci gli atti persecutori, ed è certamente da introdurre anche la
disposizione vigente per la violenza sessuale che rende non rimettibile la
querela. Si consideri che tale delitto spesso assume forme gravi e impone
l’adozione di misure cautelari personali che dovrebbero cessare appena la
vittima rimette la querela: si tratta di una circostanza che talvolta espone la
vittima a pressioni e minacce proprio per rimettere la querela. Il comma 2
renderebbe necessario consentire l’adozione di un provvedimento di sequestro
conservativo prima e a prescindere dall’esercizio dell’azione penale, e quindi
già nella fase delle indagini preliminari, al fine di assicurare in via
cautelativa il futuro ed eventuale adempimento degli obblighi di restituzione e
risarcimento danni alle vittime del reato. Non possiamo accontentarci della
risposta repressiva, anche se arriva e spesso anche tardivamente, e dobbiamo
studiare un sistema penale e processuale nel quale la finalità riparatoria e
risarcitoria assuma un ruolo centrale.
Intendo dire che alla vittima di gravi maltrattamenti in famiglia può non
bastare la condanna del maltrattante se a seguito di ciò, nonostante la
cessazione delle violenze, la stessa si ritrova senza possibilità economiche e
con figli da mantenere, magari del tutto dimenticati dal padre. In questo
settore si determinano dinamiche e relazioni di natura economica che
condizionano fortemente le scelte delle persone e che ci hanno indotto a
coniare l’espressione di vera e propria violenza economica. La strategia nella quale occorre muoversi è che la
violenza su una donna non è un fatto privato, non riguarda soltanto l’autore e
la sua vittima, ma è un fatto che va a incidere sulle fondamenta di una società
civile, quindi impone l’intervento dello Stato. Sarebbe auspicabile quindi che
tutto ciò si traducesse in una efficace strategia preventiva: la violenza di
genere deve essere, prima che repressa, prevenuta”.
Maria Luisa Pellizzari – direttrice Servizio Operativo Centrale, Ministero degli Interni
“Il Servizio Centrale Operativo è
una struttura di polizia centrale altamente specializzata per il contrasto alla
criminalità organizzata – non di matrice terroristica ed eversiva – e comune in
tutte le sue manifestazioni più pericolose e in qualunque composizione etnica
si esprima. Ha funzioni di impulso e coordinamento informativo e operativo
delle Squadre Mobili delle Questur, e partecipa direttamente alle indagini
delle Squadre Mobili nei casi di particolare complessità. Nel corso degli anni
ha assunto sempre più importanza, anche nelle attività seguite dallo SCO
(Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato), il contrasto della
violenza di genere, tematica nella quale la Polizia di Stato ha sempre avuto
un’esposizione di primo piano, essendo stata la prima Forza di polizia a
dotarsi, fin dai primi anni Sessanta, di una struttura dedicata, con il Corpo di
Polizia Femminile. Nel corso degli anni, parallelamente alla riorganizzazione
della Polizia di Stato, anche le strutture dedicate alla trattazione dei reati
commessi in pregiudizio di donne e minori sono stati innovati. Infatti, nel
1996 sono stati istituiti, presso ogni Questura, gli Uffici Minori, incardinati
nelle Divisioni Anticrimine e deputati allo svolgimento dell’attività di
prevenzione. Nel 1998, invece, è stata costituita, presso ogni Squadra Mobile,
una sezione ad hoc specializzata nelle indagini concernenti lo sfruttamento
della prostituzione, della pornografia e il turismo sessuale in danno di
minori, competenza che, negli anni, è stata estesa ai reati commessi in ambito
domestico e allo stalking. Gli operatori assegnati agli Uffici che si occupano
di tale tematica ricevono una specifica formazione multidisciplinare che pone
al centro dell’attenzione le vittime e le modalità più efficaci per prevenire
la recrudescenza delle violenze. Ciò può essere ottenuto attraverso una
corretta valutazione dei fattori di rischio e la conseguente valutazione del
rischio di recidiva, che può arrivare alla commissione dell’omicidio, nei casi
più gravi. Al riguardo, attesa l’estrema importanza della formazione in un
settore così delicato, lo SCO, avvalendosi della collaborazione di docenti del
Dipartimento di Psicologia della Seconda Università di Napoli e di operatori
dell’associazione Differenza Donna, che gestisce centri antiviolenza nella
provincia di Roma, ha sperimentato, in numerosi corsi di formazione, il metodo
S.A.R.A., acronimo che sta per Spousal Assault Risk Assessment, ovvero
Valutazione del rischio di aggressione della partner. Il monitoraggio
interforze degli omicidi consumati sul territorio nazionale, effettuato dal
Dipartimento della Pubblica Sicurezza, ha evidenziato, infatti, che la maggior
parte di quelli commessi in pregiudizio di donne è maturato in un contesto
familiare (in particolare, dal 2010 ad oggi, del totale degli omicidi con
vittima di sesso femminile, circa il 70% è stato commesso in ambito familiare).
L’Italia, possiamo dire, ha una legislazione avanzata in tal senso, pur non
essendovi una fattispecie penalistica di violenza domestica. Da ultimo, la L.
23 aprile 2009, n. 38 ha introdotto il delitto di atti persecutori, colmando un
vuoto giuridico che non consentiva agli operatori di polizia di intervenire in
tutti quei casi ai limiti della rilevanza penale. L’esperienza di questi anni
di applicazione della nuova norma ha confermato che anche lo stalking si
concretizza nella maggior parte di casi tra partner ed ex-partner. Sotto il profilo delle misure di intervento,
la legge ha dotato il Questore dello strumento, di tipo preventivo, denominato
ammonimento, che offre una tutela anticipata alla vittima di stalking che non
intende presentare una formale denuncia-querela. Dopo più di tre anni di
applicazione l’ammonimento è risultato efficace nell’impedire che i
comportamenti persecutori siano portati a ulteriori conseguenze. La sua
funzione dissuasiva, determinata dal fatto che l’inosservanza delle
prescrizioni contenute nel provvedimento comporta la procedibilità d’ufficio
per atti persecutori, è dimostrata dal fatto che, allo scorso 26 novembre 2012,
solo il 18% dei soggetti ammoniti è risultato recidivo, venendo successivamente
denunciato o arrestato per atti persecutori”.
Elvira Reale – psicologa e responsabile dello sportello antiviolenza presso l’ospedale San Paolo di Napoli
“La violenza contro le donne si
combatte su vari fronti: politico, culturale, giudiziario e, non ultimo, sul piano
sanitario, un settore che finora non è stato coinvolto in maniera adeguata,
diretta e autonoma. Eppure, almeno dal 2002, l’OMS (Organizzazione Mondiale
della Sanità) ha indicato come la violenza contro le donne – in particolare
l’intimate partner violence – sia la eziologia comune di molte patologie (in
primis la depressione) e come sia necessaria una trasformazione delle prassi
sanitarie, diagnostiche e trattamentali, per cogliere questa realtà. Fa parte
di una buona pratica media e psicologica fare diagnosi appropriate collegate a
eziologie corrette, e per fare questo la sanità deve introdurre nella
valutazione anamnestica i fatti di violenza pregressa sia per le donne sia per
i minori. Tutto ciò passa attraverso un’attivazione autonoma del campo sanitario
in tema di anti-violenza che preveda la riformulazione di prassi diagnostiche e
d’intervento. L’OMS consiglia, ad esempio, lo screening generale per la
violenza di tutte le donne che arrivano a qualsiasi servizio sanitario, ed
esistono una serie di strumenti ormai codificati per visualizzare la presenza e
gravità degli eventi di violenza nella vita di una persona e per valutarne gli
effetti post-traumatici. E mentre s’ipotizzano e si sperimentano buone prassi
sanitarie – come a Napoli dove da 4 anni è in atto presso l’Ospedale San Paolo,
un pronto soccorso psicologico – rimangono in atto vecchie prassi non
confortate da dati scientifici e quindi pregiudizievoli per la salute delle
donne e dei minori. Un esempio per tutti è la recente sentenza al processo
riguardo l’uccisione di Fiorinda di Marino in cui l’omicida è stato giudicato
incapace di intendere e di volere sulla base di una perizia incompetente in
materia di violenza di genere, e senza un riscontro critico di fatti e prove –
che potevano invece indicare un quadro difensivo di tipo simulatorio. Un
discorso specifico meritano poi le perizie psicologiche e le attività dei Ctu
(Consulenza tecnica d’ufficio) in campo civile quando si deve decidere
dell’affido dei minori nel momento in cui le donne giungono alla separazione
attraverso denunce di violenze, e dove la recente prassi
psicologico-giudiziaria può sottrarre il minore con la forza al suo ambiente
abituale, nell’intento di correggere ipotetiche storture relazionali. Le Ctu
incompetenti sono quelle che non valutano i fatti di violenza a monte del
contenzioso giudiziario e nascondono questa realtà con un semplice richiamo
alla conflittualità, criterio bipartisan che pone donne e uomini non come
vittima e offender ma al medesimo livello di responsabilità, di fronte a una
violenza che invece presuppone un dislivello di potere e quindi una diversa
responsabilità tra vittima e carnefice. La violenza contro le donne in queste
Ctu non è valutata, e quindi non è neanche valutato l’effetto del maltrattamento
assistito che spesso genera rifiuto del genitore maltrattante, generando timori
e ansie nel minore e riferiti coerenti con questi vissuti. Molte di queste Ctu,
che omettono una seria anamnesi sui fatti di violenza antecedenti che
motiverebbero nel minore questo comportamento di rifiuto, si orientano a
trovare un nuovo colpevole, e in modo ideologico e pregiudizievole lo
individuano nella madre come madre malevola. Con una metodoglogia non
confortata da prove – come l’ascolto attento del minore o di altri testimoni –
codesta madre diventerebbe l’agente del rifiuto del minore che si rifiuterebbe
di vedere l’altro genitore solo perché indottrinato da una mamma che agisce per
motivi emotivi non precisati (rancorosità, invidia, desiderio di possesso
esclusivo del figlio, ecc.). Ctu formulate in tal senso e accettate dal giudice
anche quando vi siano procedimenti penali in atto. Davanti a questa tragica
realtà è essenziale la formazione di psicologi ai temi sanitari della violenza
contro le donne in cui sia chiaro che la violenza del partner agisce come grave
stressor sulla vita delle donne e dei minori – la cui tutela costituisce un
diritto ben più pressante di quello alla bigenitorialità – e che i suoi effetti
sulla salute sono più o meno gravi in dipendenza di fattori quali intensità,
frequenza, durata della violenza e induzione di una percezione di minacciosità
sulla vita e sull’integrità psico-fisica. Oltre alla dotazione di strumenti
adeguati per valutare e diagnosticare gli effetti della violenza su donne e
minori (tra cui Elvira Reale, Maltrattamento e violenza sulle donne, vol. 1 e
2, Franco Angeli, ndr), occorrerebbe altresì anche che i giudici, di fronte a
perizie che oscurano i dati di violenza pregressi, si assumessero la
responsabilità di una valutazione autonoma in dissenso con tali elaborati
disponendo altre consulenze, e sostenendo dichiarazioni di incompetenza di tali
Ctu in ambito processuale perché non coerenti con lo specifico tema della
violenza, qualora emerga nel caso in giudizio. In un cammino di cambiamenti e
modifiche nei nostri assetti istituzionali sia sanitari (medici, psicologici e
psichiatrici) sia giudiziari – così come oggi ci chiede la Convenzione di
Istanbul contro la violenza sulle donne e contro la violenza domestica –
occorre che siano messi in campo nuovi strumenti di lettura e decodifica dei
processi di salute/malattia, nonché dei comportamenti delle vittime di violenza
familiare (donne e minori) e dei comportamenti dei partner maltrattanti e
violenti. Inoltre occorre che siano sospese e/o poste sotto osservazione
critica, prassi psicologico-giudiziarie
sancite dall’abitudine e da consolidati rapporti fiduciari che contengono però
al loro interno il richiamo viziato a tecniche e costrutti scientifici
indimostrati – come ad esempio la sindrome di alienazione parentale (Pas) di
Gardner – e comunque negazionisti, in via pregiudiziale, di quel fenomeno della
violenza contro le donne che la Convenzione di Istanbul, firmata a settembre
dall’Italia e di cui in questi giorni si chiede a gran voce la ratifica, ci
impone di valutare in ogni sede”.
Luisa Betti – giornalista esperta diritti donne e minori
“Rispetto all’anno scorso,
quest’anno il 25 novembre è stato diverso: per la Giornata mondiale contro al
violenza si sono moltiplicate le inziative in tutta Italia, anche grazie alla
Convenzione nazionale contro la violenza No More!, con un’attenzione dei mass
media che è stata altissima sul femmincidio. Una cosa molto positiva, che rende
l’idea di come l’informazione possa essere centrale nel contrastare la violenza
contro le donne, attraverso un’informazione corretta che non racconti la
storiella della “donna che se l’è cercata” ma che dia giusto peso al fenomeno
del femmincidio con dovuta documentazione e con un approccio diverso al genere.
Un’informazione che può contribuire fortemente al cambiamento di una cultura
ampiamente assecondata anche dalle istituzioni, e fertile terreno sul quale la
violenza sulle donne prolifera. E questo a partire dall’uso della parola
femminicidio che deve essere però riempita di contenuti e non usata come un
semplice slogan sia dai politici che dai media: una rivoluzione culturale che
passa anche attraverso un’informazione che smetta di ricalcare stereotipi
secondo i quali la donna sarebbe, anche lei, complice del suo stupro –
provocatrice o preda – e dove il marito o il fidanzato geloso uccide la donna
in un raptus perché fuori di sé, macchiandosi così di un reato meno grave che
richiama culturalmente al delitto d’onore. E invece di denunciare, si considera
tutto questo normale, soprattutto se i reati vengono consumati in famiglia per
cui una donna che si rivolge alla caserma più vicina può essere ancora oggi
liquidata con un vada a casa e faccia pace, o se una ragazza perseguitata da un
ex fidanzato stalker si rivolge ai carabinieri, come è successo alla sorella di
Carmela uccisa a Palermo due mesi fa, può capitare che si senta dire di
cambiare numero di cellulare. In realtà chi fa giornalismo ricalcando questi
stereotipi, non solo non dà la dimensione della gravità di quello che succede
manipolando gravemente la realtà, ma indirettamente giustifica e sostiene
quelle pericolose attenuanti culturali che permettono agli offender anche di
usufruire di alleggerimenti di pena, senza che questo scandalizzi o indigni
nessuno nell’opinione pubblica. Un esempio è la sentenza del Tribunale di
Belluno dell’anno scorso in cui un uomo, che ha stuprato una donna
minacciandola con l’accetta, ha usufrutito di attenuanti in quanto la donna
doveva sapere a cosa andava incontro perché conosceva il debole che l’uomo
nutriva nei suoi confronti – come è scritto nella sentenza che lo ha condannato
a 2 anni invece di 8 come chiesto dal pm. Un fatto che nessun giornale, tranne
il mio blog Antiviolenza sul Manifesto, ha ripreso criticandone i presupposti
appunto culturali”.
Giovanni Diotallevi – consigliere in Corte di Cassazione
“Questo incontro ha raggiunto un
obiettivo importante, direi fondamentale: raccogliere più competenze funzionali
a raggiungere una consapevolezza informata sul tema della violenza sulle donne.
Una consapevolezza culturale espressa da chi, in momenti diversi, si occupa di
informazione, prevenzione, accertamento e repressione dei comportamenti
delittuosi di genere. Ed è importante sottolineare come questa nuova sensibilità
emerga in un momento in cui, non a caso , vi è una convergenza di strumenti
internazionali: la legge di ratifica ed esecuzione della Convenzione di
Lanzarote, la sottoscrizione della Convenzione di Istanbul, e l’approvazione
della direttiva europea del 2012 sulle vittime del reato, che pongono al centro
del dibattito, più aspetti del problema complessivo. E’ giusto sottolineare
come anche la risposta organizzativa della Corte di Cassazione, per assicurare
tempestività e prevedibile uniformità alle decisioni su questa materia, ha
previsto una razionalizzazione nella distribuzione degli affari concernenti
questa tipologia di reati, limitando sostanzialmente la competenza a due sole
sezioni. L’applicazione della legge sullo stalking e le modifiche sulla disciplina dei maltrattamenti in
famiglia, con la relativa problematica del mobbing, richiedono infatti
approfondimenti progressivi e affinamento di sensibilità giurisprudenziali.
L’opportuniutà di un approccio integrato di saperi si rivela dunque indispensabile
rispetto anche all’individuazione di mezzi ulteriori e diversi, rispetto a
quello esclusivamente repressivo, che rischia di intervenire solo nel momento
più doloroso delle vicende. La buona riuscita dell’istituto dell’ammonimento,
con riferiemento alla repressione dello stalking, la possibilità di enuclerare
strumenti di mediazione, anche prima della decisione del giudice, la
realizzazione di un circuito effettivo di sostegno della vittima, a prescindere
dall’intervento giurisdizionale, e comunque l’accompagnamento concreto della
vittima stessa nel suo percorso processuale, sono elementi di necessitata
novità per il raggiungimento di obiettivi soddisfacenti”.
Franca Mangano – presidente sezione Tribunale di Roma
“Cercherò di fare una rapida carrellata
sugli strumenti processuali con i quali il giudice civile può prevenire e
sanzionare le degenerazioni violente delle relazioni familiari, allo scopo di
individuare le più rilevanti criticità e i possibili sviluppi evolutivi in
vista di una più efficace tutela delle vittime. Grazie alla l. n. 154/200, il
giudice civile, alla stessa stregua del giudice penale, può adottare ordini di
protezione per allontanare familiari e conviventi che costituiscano un pericolo
per l’incolumità e per la serenità psichica di altri componenti il nucleo
familiare. Con il vantaggio che il giudice civile può essere chiamato a
intervenire anche se la condotta violenta o intimidatoria non si configura come
reato o se la vittima – come spesso accade – non vuole presentare querela.
Inoltre il giudice può unire alla misura dell’allontanamento, ordini di
erogazione di somme a sostegno della famiglia o invio ai servizi sociali
(centri antiviolenza, ecc.). Accanto a questo sistema cautelare, il giudice
civile provvede al risarcimento del danno derivante dal fatto reato o
dall’illecito civile. La maggiore criticità risiede nella difficoltà di
quantificare il danno che una violenza sessuale o una condotta violenta in
genere, produce sulla salute della donna, sulla sua dignità e sulla sua
capacità di autodeterminazione. La giurisprudenza si affatica attorno alla
ricerca di criteri che assicurino un serio ristoro alla sofferenza delle donne
vittime di violenza, ma gli strumenti processuali (Ctu, criteri medico-legali,
valutazioni psicologiche) non offrono sempre risposte soddisfacenti. Le più
incoraggianti prospettive di sviluppo della giurisprudenza, si rinvengono in
quelle (poche) pronunce che riconoscono l’illecito endofamiliare, come fonte
autonoma di risarcimento del danno. Si tratta di una giurisprudenza che ha
abbandonato la cultura dell’immunità familiare dinanzi alla responsabilità
civile e che non sacrifica i valori della dignità e della libertà della persona
ai principi di solidarietà e di tolleranza, in nome dei quali i soprusi più
infami perpetrati all’interno della famiglia rimangono senza sanzione. Il
vantaggio più evidente è che, grazie a questa ricostruzione, la condanna a
risarcire il danno derivante da una condotta illecita può concorrere con le
sanzioni tipiche del diritto della famiglia: addebito, sequestro dei beni,
esclusione dalla gestione dei beni comuni. La principale criticità risiede
nella difficoltà della donna, che chiede di essere risarcita, di provare i
comportamenti del proprio partner: a volta sfuggenti, ma per lo più limitativi
della sua autonomia e libertà personale (c.d. mobbing familiare). Anche per
rimediare a questo problema, una parte della dottrina costruisce un onere
probatorio più attenuato per la vittima che chiede di essere risarcita,
configurando la responsabilità per illecito endofamiliare, come una
responsabilità para-contrattuale sul genere del sistema configurato per la
responsabilità medica, e sulla base di una premessa di doverosa protezione del
soggetto debole (malato, donna ecc.)”.
Elisabetta Rosi – consigliere in Corte di Cassazione
“Va ribadito il ruolo sussidiario
che la legislazione penale riveste, così come previsto nell’ambito delle
strategie della Convenzione Europea contro la violenza sulle donne e contro la
violenza domestica – varata a Istanbul l’anno scorso – che vedono nella
prevenzione e soprattutto nella protezione delle vittime, la chiave di volta
del contrasto al fenomeno della violenza contro le donne. Certamente
un’efficace azione di protezione delle vittime dalle offese penalmente
rilevanti che si manifestino inizialmente – come stalking, maltrattamenti,
lesioni personali, violenze sessuali, ecc. – contribuisce a inibire il
crescendo dei comportamenti di sopraffazione che caratterizzano le violenze
contro le donne, crescendo che spesso conduce al femminicidio. Un’efficace
azione di protezione potrebbe inoltre facilitare l’emersione di molte
situazioni che restano invisibili, nella iniziale fenomenologia, o che sono
presentati dalle stesse donne in modo da occultare la situazione di violenza
subìta: come ad esempio le dichiarazioni al pronto soccorso di accidentalità
delle lesioni (come il giustificare ecchimosi dicendo di essere caduta dalle
scale). Sarebbe certamente auspicabile che la ratifica della Convenzione di
Istanbul costituisse l’occasione per dare implementazione alla direttiva
dell’Unione europea n. 29 del 2012 che istituisce norme minime in materia di
diritti, assistenza e protezione di tutte le vittime di reato, con particolari
disposizioni per le vittime della violenza nelle c.d. close relationship. Tale
intervento è ancor più necessario in quanto il nostro sistema processuale
penale deve fare i conti con il problema, ormai sistemico, dei tempi di durata
dei processi penali non ragionevoli non solo riguardo agli imputati, ma anche
in riferimento alle vittime. Intanto, in attesa di un intervento organico e non
più differibile, occorre che il sistema giudiziario insista per l’inserimento
tra i criteri di priorità nella trattazione dei processi, dei reati relativi alla
violenza di genere; e promuova la modifica di approccio culturale da parte dei
giudici verso tale tipo di reati, non solo stabilendo una formazione permanente
sulle tematiche di genere aperta ai contributi delle diverse professionalità
non giuridiche, ma sviluppando la consapevolezza della necessità di un uso
della lingua italiana coerente con il rispetto dei diritti anche delle vittime
particolarmente vulnerabili, nella redazione delle sentenze e degli altri
provvedimenti giudiziari. E infine cooperi con le tutte le iniziative che
vogliano riconoscere alla vittima i diritti di assistenza ed eventuale protezione nel processo”.
Vittoria Tola – responsabile nazionale Udi e tra le promotrici della Convenzione “No More!” contro la violenza sulle donne–femminicidio
“I problemi evidenziati dalle
diverse relazioni dimostrano la straordinaria complessità del fenomeno e
l’articolazione e le difficoltà delle risposte necessarie. Anche solo a volersi
fermare sulle ultime considerazioni che
riguardano la eccessiva lunghezza dei processi e il problema del risarcimento
delle vittime e di come sia difficile definire un criterio, mi chiedo quanto
sia valutabile, per esempio, nel caso della ragazzina di Montalto stuprata da
un gruppo di amici che hanno avuto la solidarietà di un intero paese (sindaco
in testa), la vita distrutta di un’adolescente che all’epoca aveva 15 anni e
che oggi ne ha 22, mentre il processo deve ancora concludersi. Un processo che
nel frattempo ha distrutto la vita della ragazza, quella della sorella, del
fratello, della madre e del padre. Una giovane che ha perso la scuola, lei che
sognava di andare all’università, da cui si è ritirata per quanto stava male,
lei che era la più brava della classe, accontentandosi di lavoretti che non la
mettono a contatto con la gente del luogo. Tutto questo quando allo stupro non
corrisponde nessuna solidarietà sociale e culturale, a cui si aggiunge la
vittimizzazione secondaria anche in tribunale. Mi chiedo come siano valutabili
i danni psico-fisici di una donna torturata e annichilita dal marito o dal
compagno di fronte a i suoi figli: danno psicologico, fisico, sociale, un danno
nel corpo che diventa malattia, come diceva Elvira Reale. Anch’io ho visto
sviluppare tumori come quello che ha ucciso Donatella Colasanti (la ragazza
sopravvissuta nello stupro del Circeo), o malattie gastroenterologiche che
resistono a farmaci e interventi chirurgici, o malattie cardiache e/o mentali.
Per dare un ordine di grandezza solo dei costi sanitari delle vittime di
violenza domestica, l’Inghilterra ha valutato una cifra pari a circa 125 euro
per abitante del Regno Unito. Gli interventi di questo tavolo dovrebbero essere
proposte e rilanciate in modo pubblico dal ministro della giustizia,
dell’interno, della sanità dimostrando non solo di conoscere il lavoro degli
operatori delle strutture che li riguardano, ma anche per avere consapevolezza
delle potenzialità e dei punti critici dello Stato che rappresentano. Perchè
non ha detto niente la ministra Fornero, che oltre al ministero del Welfare ha
il coordinamento di tutte le politiche sulla violenza come ministra delle pari
opportunità? Perchè Monti non ci ha ricevuto come chiesto dalla Convenzione No
more! per ascoltare quanto chiedevamo? La Convenzione No More! ha tentato di
indicare gli ambiti e le priorità su cui intervenire a partire da dati mai
raccolti in modo sistematico ma riassunti dalla stampa come appunto il numero
dei femmincidi in Italia che il ministero degli interni non ha mai raccolto in
maniera organica. Un fenomeno grave che non sparisce mettendo la testa sotto la
sabbia, soprattutto se l’ambito è quello della famiglia che è il cuore di
relazioni violente e che coinvolge l’ambito penale e civile. Oggi discutiamo di
femminicidio e di che cosa questa parola significhi ma le parole per dire la
verità in questo paese fanno sempre fatica ad affermarsi come rivelatrici di
senso e di realtà. Forse perché sono fenomeni che molti pensano come problemi
privati e quindi fuori del patto sociale che definisce lo Stato e che si definisce
come patto sociale tra uomini da cui le donne sono escluse: nonostante abbiamo
firmato la Dichiarazione universale dei diritti umani e la Convenzione
sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazioni contro le donne.
Storicamente veniamo da una violenza maritale e patriarcale accettata anche nei
codici. Una violenza che emerge come richiesta di reato contro la persona e non
contro la morale, come recitava il Codice Rocco, quando il movimento delle
donne lanciava la legge di iniziativa popolare nel 1979: una battaglia che
durerà 16 lunghi anni con voti laceranti in parlamento perché molti, in quella
sede, non volevano affrontare proprio lo stupro coniugale. Sappiamo com’è
finita, e mentre le donne costruivano i centri antiviolenza, maturava la legge
del 2001 per l’allontanamento del familiare violento. Lo stalking, già definito
dal DPO e dal ministero della giustizia, pur essendo stato sollevato da tempo
come questione legata alle molestie persecutorie, è stato lasciato in eredità
al governo di centro destra che lo ha deformato e collocato in un dibattito
politico dove la violenza contro le donne virava spesso verso politiche
emergenziali e securitarie, oltre che xenofobe. Oggi, anche in concomitanza con
la consapevolezza dell’alto numero di femminicidi, con la necessità della
ratifica della Convenzione di Istanbul – che molti dicono possibile già in
questo fine di legislatura – si propongono nuove leggi. Eppure prima di
lanciare nuove proposte, soprattutto di tipo penale – che danno la risposta più
facile ma meno necessaria per le vittime – sarebbe necessario fare una verifica
attenta della nostra legislazione, e capire se servono altre leggi e di che
tipo, o se servono politiche precise di aiuto alle donne, politiche di
formazione di tutti coloro che sono coinvolti nell’accoglienza, nel recupero,
nella difesa e nella tutela di una donna che subisce violenza. In un contesto
in cui la prevenzione si opera attraverso la maturazione di una nuova coscienza
con obiettivi culturali che si devono porre anche nelle scuole di ogni ordine e
grado, nelle università, e soprattutto attraverso i mass media. Si dice sempre
che la violenza contro le donne è un fenomeno culturale, un fenomeno iscritto
nella tradizione, che viene da lontano, che appartiene alla mentalità. Ma
cultura in questo caso va usata nella sua accezione antropologica dove
significa l’insieme delle idee, valori, strutture fisiche e simboliche che
definiscono le norme di un determinato popolo o comunità, definendo anche e
soprattutto un potere e chi lo esercita in maniera dominante ed egemonica. In
questo senso rimanda a una precisa forma storica, millenaria e potente, in
crisi ma capace di colpi di coda formidabili: un patriarcato con forme ancora
dominanti nella mentalità collettiva, soprattutto in Italia”.