FEMMINICIDIO

venerdì 30 novembre 2012

Femminicidio: proposte di intervento in ambito giudiziario


Tavola rotonda

FEMMINICIDIO:
ANALISI, METODOLOGIA E INTERVENTO IN AMBITO GIUDIZIARIO.
PER UNA STRATEGIA CONCRETA DI LAVORO INTERDISCIPLINARE

Roma, 30.11.2012


ATTI DEL CONVEGNO, pubblicati da Luisa Betti sul blog “Antiviolenza” il 07.12.2012
Link: http://blog.ilmanifesto.it/antiviolenza/2012/12/07/femminicidio-i-tribunali-aprono-le-porte-al-confronto/

Introduzione


Antonella Di Florio – presidente sezione Tribunale di Roma


“Questo convegno è stato pensato nel marzo del 2012 partendo da un articolo scritto da Luisa Betti sul Manifesto, quando le vittime di femminicidio erano, in Italia, 37. Oggi sono diventate 117 comprese le vittime collaterali. Ora nessuno può più negare che l’uccisione delle donne configuri una fattispecie specifica che risponde a presupposti peculiari e nessuno ritiene che si possa più parlare genericamente di omicidio. La particolarità dei moventi e delle circostanze in cui il delitto viene commesso consente di coniare e pronunciare senza timore il termine di femminicidio, rispetto al quale c’era stato finora qualche rifiuto, qualche reticenza. Sono stati fatti alcuni passi avanti. Registriamo, infatti, percorrendo gli eventi  a ritroso: il grande successo e la grande risonanza della giornata contro la violenza dello scorso 25 novembre; la sottoscrizione della Ministra Elsa Fornero, lo scorso 27 settembre, della Convenzione Europea di Istanbul depositata l’11.5.2011 che, però, non è stata ancora ratificata dall’Italia – anche se la ratifica è stata promessa entro la fine della legislatura; alcune proposte di legge – sia quella presentata dalla senatrice Serafini sia quella proposta da Buongiorno-Carfagna – che, con tutti i limiti anche contenutistici, si trovano però a fine legislatura; e ancor prima l’approvazione della legge sullo stalking. A tutto ciò si aggiunga anche il cambiamento del linguaggio giornalistico che pronuncia la parola femminicidio prima desueta o meglio non coniata, la tendenza a una migliore formazione degli operatori sociali e la creazione di una buona sinergia fra gli Uffici di Procura e i centri di accoglienza delle donne vittime, e la costante attività di lavoro e di sensibilizzazione dei Centri Antiviolenza. Ma tutto questo – che già è un grande passo avanti – sembra non bastare e sembra non arrestare il progressivo aumento del fenomeno. Il femminicidio è diffuso spaventosamente in tutto il mondo. La Turchia, in particolare, ha dato la paternità alla Convenzione Europea contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, ed è stato il primo paese a ratificarla perché è uno degli Stati più coinvolti o almeno uno dei paesi in cui tale spaventosa barbarie riesce ad essere registrata con dati raccapriccianti: il 42 % di donne con più di 15 anna ha subito violenza fisica e sessuale, e la percentuale sale al 47% nelle campagne. Qui tra febbraio e marzo del 2012 sono state uccise 52 donne, ma nello stesso periodo del 2010 ne erano state uccise 217, e una su tre è stata uccisa perché aveva chiesto il divorzio. Il contenuto della Convenzione di Istanbul – che cerca di unificare la lotta contro il fenomeno in tutti i Paesi europei ma che è aperta anche a Stati fuori dall’Europa – è altamente emancipatorio: dedica molte disposizioni alle forme di prevenzione e molte altre alle forme di protezione delle vittime prevedendo espressamente la necessità che venga, ad esempio, garantito il diritto al risarcimento del danno, diritto già in passato affermato attraverso la direttiva 2004/80 recepita in Italia con il Dlvo 204/2007 del quale peraltro si hanno scarse notizie di effettiva applicazione: diritto che presenta una particolare importanza perché la sua affermazione consente alla vittima di liberarsi di ogni senso di colpa – che purtroppo permane ovi si scampi alla tragedia – attraverso l’affermazione  dell’altrui totale responsabilità dell’aggressione. I principi affermati nella Convenzione di Istanbul sono di grande importanza ma è altrettanto importante che non rimangano lettera sulla carta e che vengano tradotti in strumenti concreti sia per prevenire ulteriori reati sia per apprestare un’adeguata protezione a chi dovesse ancora essere colpita dalla folle violenza di una cultura che confonde l’amore con l’ossessione del possesso e giustifica talvolta, ancora nel 2012 , il femminicidio con la lesione dell’onore. Questo convegno è stato pensato come un’incontro – fra più operatori che dolorosamente si sono dovuti occupare di casi di violenza – finalizzato a combattere per la libertà delle donne a non morire: le  parole di tutti saranno un piccolo grande contributo per vincere questa grande battaglia”.

Interventi


Barbara Spinelli – avvocata penalista, esperta di femminicidio – Giuristi Democratici, Piattaforma CEDAW, Convenzione NoMore!


“Il femmicidio e il femminicidio sono due neologismi coniati per evidenziare la predominanza statistica della natura di genere della maggior parte degli omicidi e violenze sulle donne. Femmicidio è l’uccisione della donna in quanto donna (cifr. Diana Russell), e nella ricerca criminologica include anche quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito/la conseguenza di pratiche sociali misogine. Femminicidio è “la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una situazione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambini, di sofferenze psichiche e fisiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia” (cifr. Marcela Lagarde). Si tratta di due categorie di analisi sociologica e criminologica. In alcuni paesi, in particolare dell’America Latina, si è scelto anche di introdurre nei codici penali le fattispecie o le aggravanti di femmicidio o di femminicidio. La scelta spesso ha costituito un atto simbolico a fronte di situazioni di sistematica violazione dei diritti delle donne, di altissimi gradi di impunità, e di revisioni strutturali di impianti normativi che si caratterizzavano per contenere già prima previsioni che al contrario erano apertamente discriminatorie nei confronti delle donne. Dunque in quei luoghi l’introduzione di fattispecie con una specificità di genere ha costituito una sorta di misura speciale temporanea per accelerare il cambio culturale nel riconoscimento del disvalore degli atti di violenza compiuti nei confronti delle donne. Certo un simile utilizzo del diritto penale non troverebbe ragione nell’ordinamento italiano, dove, come evidenziato dall’Onu, a fronte di un invidiabile, ma pur sempre perfettibile, impianto normativo, resta il problema dell’implementazione delle norme esistenti, viziata dal pregiudizio di genere. La violenza maschile sulle donne costituisce una violazione dei diritti umani, della quale il femminicidio costituisce la manifestazione più estrema. La codificazione del femminicidio quale violazione dei diritti umani, è avvenuta nell’ambito del sistema di diritto internazionale umanitario internazionale e regionale. In Italia, anche rispetto ad altri Paesi europei, persiste una significativa difficoltà per le Istituzioni e per i giuristi a concepire la necessità di un approccio giuridico e politico alla violenza maschile sulle donne che la affronti quale violazione dei diritti umani. Di conseguenza, le politiche e le riforme legislative difficilmente rispondono all’esigenza di attuare le obbligazioni istituzionali in materia – come prevenire la violenza maschile sulle donne, proteggere le donne dalla violenza maschile, perseguire i reati che costituiscono violenza maschile, procurare compensazione alle donne che hanno subito violenza maschile – nei modi e nelle forme indicati dalle Nazioni Unite (Raccomandazioni all’Italia del Comitato Cedaw e della Relatrice Speciale Onu contro la violenza sulle donne, Rashida Manjoo). Si ricorda infatti che anche in materia di violenza maschile sulle donne, gli Stati sono tenuti non solo a non violare direttamente i diritti umani delle donne, ma anche ad esercitare la dovuta diligenza per impedire violazioni dei diritti fondamentali posti in essere dai privati. Si configura una responsabilità dello Stato, qualora i suoi apparati non siano in grado, attraverso l’esercizio delle funzioni di competenza, di proteggere, attraverso l’adozione di misure adeguate, il diritto alla vita e all’integrità psicofisica delle donne, o qualora l’aggressione da parte di privati a questi diritti fondamentali sia favorita dal mancato o difficile accesso alla giustizia da parte della donna. In tal senso, si ricorda che l’Italia nel 2009 è già stata condannata dalla CEDU (Majorano c. Italia). Il problema principale che caratterizza l’inadeguatezza delle risposte istituzionali alla violenza maschile sulle donne in Italia, è rappresentato dal mancato riconoscimento da parte delle Istituzioni della persistente esistenza di pregiudizi di genere, e dell’influenza che questi esercitano sull’adeguatezza delle risposte istituzionali in materia. C’è infatti una vera e propria tendenza alla rimozione, del fatto che fino a ieri il sistema giuridico italiano era profondamente patriarcale: chi ricorda la data della riforma del diritto di famiglia, che ha abolito la potestà maritale? E le riforme del codice penale che abolito l’attenuante – per gli uomini – del delitto d’onore e hanno spostato la violenza sessuale da reato contro la morale a reato contro la persona? Il fatto è che quella stessa mentalità ancora oggi è profondamente radicata nel pensiero degli operatori del diritto e, in assenza di formazione professionale sul riconoscimento della specificità della violenza maschile sulle donne e delle forme in cui si manifesta e degli indicatori di rischio che espongono la donna alla rivittimizzazione, spesso si risolve in sentenze dalle motivazioni anche palesemente sessiste ovvero nella mancata ricezione di denunce-querele ovvero nella mancata adozione di misure cautelari a protezione della donna, il tutto descritto dalle Nazioni Unite come il persistere di atteggiamenti socio-culturali che condonano la violenza di genere. La percezione di inadeguatezza della protezione da parte delle sopravvissute al femminicidio in Italia risponde a un problema reale, confermato dai dati ormai noti: 7 donne su 10 avevano già chiesto aiuto prima di essere uccise, attraverso una o più chiamate in emergenza, denunce, prese in carico da parte dei servizi sociali. Allora occorre anche da parte degli operatori del diritto sollecitare i soggetti istituzionali preposti al corretto adempimento delle obbligazioni internazionali in materia di prevenzione e contrasto al femminicidio. In particolare sul fronte della prevenzione, con la predisposizione di sistemi di efficace e uniforme raccolta dei dati sulla vittimizzazione e sulla risposta del sistema giudiziario (con dati pubblici, disponibili online e costantemente aggiornati); e la formazione di genere per tutti gli operatori del diritto. Mentre sul fronte della protezione bisogna favorire la formazione di sezioni specializzate, l’intervento anche in emergenza da parte di “volanti specializzate”, e favorire linee-guida e protocolli di azione nazionali da adottarsi per i vari uffici (protocolli di intervento per le forze dell’ordine, protocolli della magistratura inquirente sulla conduzione delle indagini, protocolli per l’adozione degli ordini di protezione, ecc.) per facilitare anche l’organizzazione delle procure e dei giudici per le indagini preliminari e per l’esecuzione della pena in maniera tale da trattare in via prioritaria le situazioni di violenza nelle relazioni di intimità. A cui aggiungere un maggiore coordinamento tra tribunale per i minorenni, procura della repubblica, tribunale civile, anche attraverso la previsione di obblighi di comunicazione, e il divieto di mediazione per i reati famigliari. Sul fronte della persecuzione bisogna invece favorire l’immediata implementazione della direttiva europea del 2012 sulle vittime di reato e sul fronte della compensazione portare avanti la formazione professionale per favorire il riconoscimento della specificità dei danni nei casi di violenza di genere. Infine è necessario anche incentivare l’utilizzo del sequestro conservativo dei beni dell’indagato in fase di indagini preliminari, introdurre misure atte ad anticipare la finalità riparatoria della costituzione di parte civile nel processo penale, attraverso interventi tempestivi che prevedano anche una protezione economica della parte offesa”.

Maria Monteleone – procuratrice aggiunta, Procura della Repubblica di Roma


“È opportuno precisare che con l’espressione femminicidio indichiamo non soltanto l’uccisione della donna, ma anche ogni forma di violenza alla donna in quanto tale, cioè ogni azione criminale che si caratterizzi per essere perpetrata da un uomo nei confronti di una donna, alla quale spesso è stato (o è) legato da una relazione affettiva: un marito, un convivente, un fidanzato, il padre, il fratello ovvero un uomo comunque vicino alla donna. Il primo elemento di valutazione è che i dati statistici stanno a dimostrare come il fenomeno della violenza che caratterizza le relazioni familiari è oggettivamente molto grave, perché sono statisticamente elevati i nuovi procedimenti che ogni anno vengono iscritti. L’altro aspetto drammatico è proprio la forma e le caratteristiche della violenza che si esercita sulle donne che assume connotazioni di notevole pericolosità sotto il profilo della condotta e degli effetti che determina sulle persone coinvolte, tanto che sempre più frequentemente si deve fare ricorso alla adozione di misure cautelari, e quella di più frequente applicazione è la custodia in carcere. Molte delle realtà familiari, all’interno delle quali si scatenano forme di violenza indicibile, si caratterizzano anche per il fatto che queste violenze si protraggono nel tempo con conseguenze devastanti per le vittime che sono nella quasi totalità donne: si pensi ai nuclei familiari multietnici che spesso sono portatori di culture molto diverse dalle nostre e che spesso per lungo tempo restano impermeabili anche ai principi  fondamentali del nostro sistema che non riconoscono neppure che la donna sia soggetto di diritti in quanto persona e che la considerano poco più che un oggetto. Le violenze che caratterizzano le famiglie sono un numero molto elevato e soprattutto sfuggono a qualsiasi controllo e spesso anche alla repressione. Non vi è dubbio che l’approccio con queste forme di criminalità, proprio in ragione della loro specificità, richiedono un approccio investigativo di tipo specialistico, perché solo chi conosce approfonditamente le dinamiche tipiche di queste forme di violenza può predisporre e assicurare interventi adeguati, e questo non può essere ignorato da chi riceve la notizia di reato che deve rapportarsi con la vittima con modalità adeguate e non certo burocratiche. Intendiamo dire che l’approccio investigativo a queste forme di violenza non può prescindere da alcuni elementi significativi. Si consideri che molti dei fatti che poi evolvono in condotte aggressive di maggiore gravità, spesso sono preceduti da episodi che vengono minimizzati e trascurati e che anche dagli organi inquirenti sono trattati come banali liti tra vicini o condominiali, dando luogo all’avvio di molti procedimenti che finiscono al giudice di pace rubricati come ingiurie, diffamazioni, minacce o lesioni volontarie semplici: il tutto con gli intuibili esiti. Bisogna avere la capacità e la disponibilità per attenzionare ogni episodio di violenza che è portato a conoscenza delle forze dell’ordine. E’ un dato acquisito che in pochi casi la violenza si ferma ad un singolo fatto, mentre risulta che molto spesso ci si trovi di fronte a un crescendo di gravità, e un intervento tempestivo che può impedire che la situazione evolva in maniera ancora drammatica. Il piano di intervento, anche conseguente alla entrata in vigore della legge n.172 del 2012 – conversione della Convenzione di Lanzarote – impone la revisione delle relazioni tra P.M. e organi inquirenti (si consideri gli effetti della modifica dell’art. 351 c.p.p.), che deve essere capace di dare risposte concrete ed efficaci in tempi adeguati alle esigenze delle vittime. Risposte che sappiano riconoscere il fenomeno e determinarsi di conseguenza, impostando una strategia investigativa a vasto raggio mirata alla tutela della donna e dei minori, assicurando anche un supporto e un’assistenza economica, ove necessaria. Per restare sempre sul piano della concretezza, sia pure molto velocemente, voglio fare alcune riflessioni e anche proposte di interventi normativi che, a mio avviso, sarebbero necessari. Innanzi tutto si deve assicurare un’effettiva e concreta assistenza legale alla vittima fin dal momento in cui deve presentare la querela o la denuncia, e bisogna introdurre modifiche legislative specifiche per la parte offesa anche nella fase delle indagini preliminari. Occorre prendere atto che la vittima di questi fenomeni criminosi riveste una posizione particolare in un sistema processuale, il nostro, che è troppo sbilanciato a favore dell’autore del delitto, al quale vengono assicurate le più ampie garanzie possibili. In tale ambito rientra il ruolo fondamentale che deve essere riconosciuto alle associazioni a tutela delle donne che svolgono un ruolo delicatissimo e che vanno potenziate. E’ innegabile come nei casi più gravi (e sono molti) sia necessaria una strategia di sostegno e di presa di coscienza della vittima di tale sua qualità, ovvero di farle acquisire la consapevolezza che è parte offesa nel processo e che deve riappropriarsi dei propri diritti in quanto persona. Una delle constatazioni più frequenti in questo tipo di investigazioni è che molte donne sembrano non rendersi conto della gravità dei torti subiti, e in alcuni casi  vi è anche l’esigenza di aiutare e sostenere la donna in un percorso di ricostruzione come persona: e tutto ciò è difficilmente conciliabile con i tempi e le regole del processo. Sul piano giuridico bisognerebbe quindi valutare l’opportunità di alcune modifiche mirate che prendano in considerazione la realtà dei fatti. E’ auspicabile che nel caso di lesioni volontarie sia considerata come circostanza aggravante la qualità di coniuge o convivente della vittima, e ciò potrebbe avvenire attraverso la modifica del n. 2 dell’art. 576 c.p. (al quale rinvia l’art. 585), che attualmente contempla come aggravante l’ipotesi del fatto commesso contro l’ascendente o il discendente. A ciò aggiungerei l’introduzione di nuove e specifiche misure precautelari che consentano al pubblico ministero (o eventualmente anche all’ufficiale di p.g.) di disporre immediatamente e provvisoriamente l’allontanamento dalla casa familiare e/o il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Tra i reati spia che devono essere attenzionati in modo particolare, non vi è dubbio che debbano esserci gli atti persecutori, ed è certamente da introdurre anche la disposizione vigente per la violenza sessuale che rende non rimettibile la querela. Si consideri che tale delitto spesso assume forme gravi e impone l’adozione di misure cautelari personali che dovrebbero cessare appena la vittima rimette la querela: si tratta di una circostanza che talvolta espone la vittima a pressioni e minacce proprio per rimettere la querela. Il comma 2 renderebbe necessario consentire l’adozione di un provvedimento di sequestro conservativo prima e a prescindere dall’esercizio dell’azione penale, e quindi già nella fase delle indagini preliminari, al fine di assicurare in via cautelativa il futuro ed eventuale adempimento degli obblighi di restituzione e risarcimento danni alle vittime del reato. Non possiamo accontentarci della risposta repressiva, anche se arriva e spesso anche tardivamente, e dobbiamo studiare un sistema penale e processuale nel quale la finalità riparatoria e risarcitoria  assuma un ruolo centrale. Intendo dire che alla vittima di gravi maltrattamenti in famiglia può non bastare la condanna del maltrattante se a seguito di ciò, nonostante la cessazione delle violenze, la stessa si ritrova senza possibilità economiche e con figli da mantenere, magari del tutto dimenticati dal padre. In questo settore si determinano dinamiche e relazioni di natura economica che condizionano fortemente le scelte delle persone e che ci hanno indotto a coniare l’espressione di vera e propria violenza economica. La strategia  nella quale occorre muoversi è che la violenza su una donna non è un fatto privato, non riguarda soltanto l’autore e la sua vittima, ma è un fatto che va a incidere sulle fondamenta di una società civile, quindi impone l’intervento dello Stato. Sarebbe auspicabile quindi che tutto ciò si traducesse in una efficace strategia preventiva: la violenza di genere deve essere, prima che repressa, prevenuta”.

Maria Luisa Pellizzari – direttrice Servizio Operativo Centrale, Ministero degli Interni


“Il Servizio Centrale Operativo è una struttura di polizia centrale altamente specializzata per il contrasto alla criminalità organizzata – non di matrice terroristica ed eversiva – e comune in tutte le sue manifestazioni più pericolose e in qualunque composizione etnica si esprima. Ha funzioni di impulso e coordinamento informativo e operativo delle Squadre Mobili delle Questur, e partecipa direttamente alle indagini delle Squadre Mobili nei casi di particolare complessità. Nel corso degli anni ha assunto sempre più importanza, anche nelle attività seguite dallo SCO (Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato), il contrasto della violenza di genere, tematica nella quale la Polizia di Stato ha sempre avuto un’esposizione di primo piano, essendo stata la prima Forza di polizia a dotarsi, fin dai primi anni Sessanta, di una struttura dedicata, con il Corpo di Polizia Femminile. Nel corso degli anni, parallelamente alla riorganizzazione della Polizia di Stato, anche le strutture dedicate alla trattazione dei reati commessi in pregiudizio di donne e minori sono stati innovati. Infatti, nel 1996 sono stati istituiti, presso ogni Questura, gli Uffici Minori, incardinati nelle Divisioni Anticrimine e deputati allo svolgimento dell’attività di prevenzione. Nel 1998, invece, è stata costituita, presso ogni Squadra Mobile, una sezione ad hoc specializzata nelle indagini concernenti lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia e il turismo sessuale in danno di minori, competenza che, negli anni, è stata estesa ai reati commessi in ambito domestico e allo stalking. Gli operatori assegnati agli Uffici che si occupano di tale tematica ricevono una specifica formazione multidisciplinare che pone al centro dell’attenzione le vittime e le modalità più efficaci per prevenire la recrudescenza delle violenze. Ciò può essere ottenuto attraverso una corretta valutazione dei fattori di rischio e la conseguente valutazione del rischio di recidiva, che può arrivare alla commissione dell’omicidio, nei casi più gravi. Al riguardo, attesa l’estrema importanza della formazione in un settore così delicato, lo SCO, avvalendosi della collaborazione di docenti del Dipartimento di Psicologia della Seconda Università di Napoli e di operatori dell’associazione Differenza Donna, che gestisce centri antiviolenza nella provincia di Roma, ha sperimentato, in numerosi corsi di formazione, il metodo S.A.R.A., acronimo che sta per Spousal Assault Risk Assessment, ovvero Valutazione del rischio di aggressione della partner. Il monitoraggio interforze degli omicidi consumati sul territorio nazionale, effettuato dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza, ha evidenziato, infatti, che la maggior parte di quelli commessi in pregiudizio di donne è maturato in un contesto familiare (in particolare, dal 2010 ad oggi, del totale degli omicidi con vittima di sesso femminile, circa il 70% è stato commesso in ambito familiare). L’Italia, possiamo dire, ha una legislazione avanzata in tal senso, pur non essendovi una fattispecie penalistica di violenza domestica. Da ultimo, la L. 23 aprile 2009, n. 38 ha introdotto il delitto di atti persecutori, colmando un vuoto giuridico che non consentiva agli operatori di polizia di intervenire in tutti quei casi ai limiti della rilevanza penale. L’esperienza di questi anni di applicazione della nuova norma ha confermato che anche lo stalking si concretizza nella maggior parte di casi tra partner ed ex-partner.  Sotto il profilo delle misure di intervento, la legge ha dotato il Questore dello strumento, di tipo preventivo, denominato ammonimento, che offre una tutela anticipata alla vittima di stalking che non intende presentare una formale denuncia-querela. Dopo più di tre anni di applicazione l’ammonimento è risultato efficace nell’impedire che i comportamenti persecutori siano portati a ulteriori conseguenze. La sua funzione dissuasiva, determinata dal fatto che l’inosservanza delle prescrizioni contenute nel provvedimento comporta la procedibilità d’ufficio per atti persecutori, è dimostrata dal fatto che, allo scorso 26 novembre 2012, solo il 18% dei soggetti ammoniti è risultato recidivo, venendo successivamente denunciato o arrestato per atti persecutori”.

Elvira Reale – psicologa e responsabile dello sportello antiviolenza presso l’ospedale San Paolo di Napoli


“La violenza contro le donne si combatte su vari fronti: politico, culturale, giudiziario e, non ultimo, sul piano sanitario, un settore che finora non è stato coinvolto in maniera adeguata, diretta e autonoma. Eppure, almeno dal 2002, l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha indicato come la violenza contro le donne – in particolare l’intimate partner violence – sia la eziologia comune di molte patologie (in primis la depressione) e come sia necessaria una trasformazione delle prassi sanitarie, diagnostiche e trattamentali, per cogliere questa realtà. Fa parte di una buona pratica media e psicologica fare diagnosi appropriate collegate a eziologie corrette, e per fare questo la sanità deve introdurre nella valutazione anamnestica i fatti di violenza pregressa sia per le donne sia per i minori. Tutto ciò passa attraverso un’attivazione autonoma del campo sanitario in tema di anti-violenza che preveda la riformulazione di prassi diagnostiche e d’intervento. L’OMS consiglia, ad esempio, lo screening generale per la violenza di tutte le donne che arrivano a qualsiasi servizio sanitario, ed esistono una serie di strumenti ormai codificati per visualizzare la presenza e gravità degli eventi di violenza nella vita di una persona e per valutarne gli effetti post-traumatici. E mentre s’ipotizzano e si sperimentano buone prassi sanitarie – come a Napoli dove da 4 anni è in atto presso l’Ospedale San Paolo, un pronto soccorso psicologico – rimangono in atto vecchie prassi non confortate da dati scientifici e quindi pregiudizievoli per la salute delle donne e dei minori. Un esempio per tutti è la recente sentenza al processo riguardo l’uccisione di Fiorinda di Marino in cui l’omicida è stato giudicato incapace di intendere e di volere sulla base di una perizia incompetente in materia di violenza di genere, e senza un riscontro critico di fatti e prove – che potevano invece indicare un quadro difensivo di tipo simulatorio. Un discorso specifico meritano poi le perizie psicologiche e le attività dei Ctu (Consulenza tecnica d’ufficio) in campo civile quando si deve decidere dell’affido dei minori nel momento in cui le donne giungono alla separazione attraverso denunce di violenze, e dove la recente prassi psicologico-giudiziaria può sottrarre il minore con la forza al suo ambiente abituale, nell’intento di correggere ipotetiche storture relazionali. Le Ctu incompetenti sono quelle che non valutano i fatti di violenza a monte del contenzioso giudiziario e nascondono questa realtà con un semplice richiamo alla conflittualità, criterio bipartisan che pone donne e uomini non come vittima e offender ma al medesimo livello di responsabilità, di fronte a una violenza che invece presuppone un dislivello di potere e quindi una diversa responsabilità tra vittima e carnefice. La violenza contro le donne in queste Ctu non è valutata, e quindi non è neanche valutato l’effetto del maltrattamento assistito che spesso genera rifiuto del genitore maltrattante, generando timori e ansie nel minore e riferiti coerenti con questi vissuti. Molte di queste Ctu, che omettono una seria anamnesi sui fatti di violenza antecedenti che motiverebbero nel minore questo comportamento di rifiuto, si orientano a trovare un nuovo colpevole, e in modo ideologico e pregiudizievole lo individuano nella madre come madre malevola. Con una metodoglogia non confortata da prove – come l’ascolto attento del minore o di altri testimoni – codesta madre diventerebbe l’agente del rifiuto del minore che si rifiuterebbe di vedere l’altro genitore solo perché indottrinato da una mamma che agisce per motivi emotivi non precisati (rancorosità, invidia, desiderio di possesso esclusivo del figlio, ecc.). Ctu formulate in tal senso e accettate dal giudice anche quando vi siano procedimenti penali in atto. Davanti a questa tragica realtà è essenziale la formazione di psicologi ai temi sanitari della violenza contro le donne in cui sia chiaro che la violenza del partner agisce come grave stressor sulla vita delle donne e dei minori – la cui tutela costituisce un diritto ben più pressante di quello alla bigenitorialità – e che i suoi effetti sulla salute sono più o meno gravi in dipendenza di fattori quali intensità, frequenza, durata della violenza e induzione di una percezione di minacciosità sulla vita e sull’integrità psico-fisica. Oltre alla dotazione di strumenti adeguati per valutare e diagnosticare gli effetti della violenza su donne e minori (tra cui Elvira Reale, Maltrattamento e violenza sulle donne, vol. 1 e 2, Franco Angeli, ndr), occorrerebbe altresì anche che i giudici, di fronte a perizie che oscurano i dati di violenza pregressi, si assumessero la responsabilità di una valutazione autonoma in dissenso con tali elaborati disponendo altre consulenze, e sostenendo dichiarazioni di incompetenza di tali Ctu in ambito processuale perché non coerenti con lo specifico tema della violenza, qualora emerga nel caso in giudizio. In un cammino di cambiamenti e modifiche nei nostri assetti istituzionali sia sanitari (medici, psicologici e psichiatrici) sia giudiziari – così come oggi ci chiede la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e contro la violenza domestica – occorre che siano messi in campo nuovi strumenti di lettura e decodifica dei processi di salute/malattia, nonché dei comportamenti delle vittime di violenza familiare (donne e minori) e dei comportamenti dei partner maltrattanti e violenti. Inoltre occorre che siano sospese e/o poste sotto osservazione critica,  prassi psicologico-giudiziarie sancite dall’abitudine e da consolidati rapporti fiduciari che contengono però al loro interno il richiamo viziato a tecniche e costrutti scientifici indimostrati – come ad esempio la sindrome di alienazione parentale (Pas) di Gardner – e comunque negazionisti, in via pregiudiziale, di quel fenomeno della violenza contro le donne che la Convenzione di Istanbul, firmata a settembre dall’Italia e di cui in questi giorni si chiede a gran voce la ratifica, ci impone di valutare in ogni sede”.

Luisa Betti – giornalista esperta diritti donne e minori


“Rispetto all’anno scorso, quest’anno il 25 novembre è stato diverso: per la Giornata mondiale contro al violenza si sono moltiplicate le inziative in tutta Italia, anche grazie alla Convenzione nazionale contro la violenza No More!, con un’attenzione dei mass media che è stata altissima sul femmincidio. Una cosa molto positiva, che rende l’idea di come l’informazione possa essere centrale nel contrastare la violenza contro le donne, attraverso un’informazione corretta che non racconti la storiella della “donna che se l’è cercata” ma che dia giusto peso al fenomeno del femmincidio con dovuta documentazione e con un approccio diverso al genere. Un’informazione che può contribuire fortemente al cambiamento di una cultura ampiamente assecondata anche dalle istituzioni, e fertile terreno sul quale la violenza sulle donne prolifera. E questo a partire dall’uso della parola femminicidio che deve essere però riempita di contenuti e non usata come un semplice slogan sia dai politici che dai media: una rivoluzione culturale che passa anche attraverso un’informazione che smetta di ricalcare stereotipi secondo i quali la donna sarebbe, anche lei, complice del suo stupro – provocatrice o preda – e dove il marito o il fidanzato geloso uccide la donna in un raptus perché fuori di sé, macchiandosi così di un reato meno grave che richiama culturalmente al delitto d’onore. E invece di denunciare, si considera tutto questo normale, soprattutto se i reati vengono consumati in famiglia per cui una donna che si rivolge alla caserma più vicina può essere ancora oggi liquidata con un vada a casa e faccia pace, o se una ragazza perseguitata da un ex fidanzato stalker si rivolge ai carabinieri, come è successo alla sorella di Carmela uccisa a Palermo due mesi fa, può capitare che si senta dire di cambiare numero di cellulare. In realtà chi fa giornalismo ricalcando questi stereotipi, non solo non dà la dimensione della gravità di quello che succede manipolando gravemente la realtà, ma indirettamente giustifica e sostiene quelle pericolose attenuanti culturali che permettono agli offender anche di usufruire di alleggerimenti di pena, senza che questo scandalizzi o indigni nessuno nell’opinione pubblica. Un esempio è la sentenza del Tribunale di Belluno dell’anno scorso in cui un uomo, che ha stuprato una donna minacciandola con l’accetta, ha usufrutito di attenuanti in quanto la donna doveva sapere a cosa andava incontro perché conosceva il debole che l’uomo nutriva nei suoi confronti – come è scritto nella sentenza che lo ha condannato a 2 anni invece di 8 come chiesto dal pm. Un fatto che nessun giornale, tranne il mio blog Antiviolenza sul Manifesto, ha ripreso criticandone i presupposti appunto culturali”.

Giovanni Diotallevi – consigliere in Corte di Cassazione


“Questo incontro ha raggiunto un obiettivo importante, direi fondamentale: raccogliere più competenze funzionali a raggiungere una consapevolezza informata sul tema della violenza sulle donne. Una consapevolezza culturale espressa da chi, in momenti diversi, si occupa di informazione, prevenzione, accertamento e repressione dei comportamenti delittuosi di genere. Ed è importante sottolineare come questa nuova sensibilità emerga in un momento in cui, non a caso , vi è una convergenza di strumenti internazionali: la legge di ratifica ed esecuzione della Convenzione di Lanzarote, la sottoscrizione della Convenzione di Istanbul, e l’approvazione della direttiva europea del 2012 sulle vittime del reato, che pongono al centro del dibattito, più aspetti del problema complessivo. E’ giusto sottolineare come anche la risposta organizzativa della Corte di Cassazione, per assicurare tempestività e prevedibile uniformità alle decisioni su questa materia, ha previsto una razionalizzazione nella distribuzione degli affari concernenti questa tipologia di reati, limitando sostanzialmente la competenza a due sole sezioni. L’applicazione della legge sullo stalking e le modifiche  sulla disciplina dei maltrattamenti in famiglia, con la relativa problematica del mobbing, richiedono infatti approfondimenti progressivi e affinamento di sensibilità giurisprudenziali. L’opportuniutà di un approccio integrato di saperi si rivela dunque indispensabile rispetto anche all’individuazione di mezzi ulteriori e diversi, rispetto a quello esclusivamente repressivo, che rischia di intervenire solo nel momento più doloroso delle vicende. La buona riuscita dell’istituto dell’ammonimento, con riferiemento alla repressione dello stalking, la possibilità di enuclerare strumenti di mediazione, anche prima della decisione del giudice, la realizzazione di un circuito effettivo di sostegno della vittima, a prescindere dall’intervento giurisdizionale, e comunque l’accompagnamento concreto della vittima stessa nel suo percorso processuale, sono elementi di necessitata novità per il raggiungimento di obiettivi soddisfacenti”.

Franca Mangano – presidente sezione Tribunale di Roma


“Cercherò di fare una rapida carrellata sugli strumenti processuali con i quali il giudice civile può prevenire e sanzionare le degenerazioni violente delle relazioni familiari, allo scopo di individuare le più rilevanti criticità e i possibili sviluppi evolutivi in vista di una più efficace tutela delle vittime. Grazie alla l. n. 154/200, il giudice civile, alla stessa stregua del giudice penale, può adottare ordini di protezione per allontanare familiari e conviventi che costituiscano un pericolo per l’incolumità e per la serenità psichica di altri componenti il nucleo familiare. Con il vantaggio che il giudice civile può essere chiamato a intervenire anche se la condotta violenta o intimidatoria non si configura come reato o se la vittima – come spesso accade – non vuole presentare querela. Inoltre il giudice può unire alla misura dell’allontanamento, ordini di erogazione di somme a sostegno della famiglia o invio ai servizi sociali (centri antiviolenza, ecc.). Accanto a questo sistema cautelare, il giudice civile provvede al risarcimento del danno derivante dal fatto reato o dall’illecito civile. La maggiore criticità risiede nella difficoltà di quantificare il danno che una violenza sessuale o una condotta violenta in genere, produce sulla salute della donna, sulla sua dignità e sulla sua capacità di autodeterminazione. La giurisprudenza si affatica attorno alla ricerca di criteri che assicurino un serio ristoro alla sofferenza delle donne vittime di violenza, ma gli strumenti processuali (Ctu, criteri medico-legali, valutazioni psicologiche) non offrono sempre risposte soddisfacenti. Le più incoraggianti prospettive di sviluppo della giurisprudenza, si rinvengono in quelle (poche) pronunce che riconoscono l’illecito endofamiliare, come fonte autonoma di risarcimento del danno. Si tratta di una giurisprudenza che ha abbandonato la cultura dell’immunità familiare dinanzi alla responsabilità civile e che non sacrifica i valori della dignità e della libertà della persona ai principi di solidarietà e di tolleranza, in nome dei quali i soprusi più infami perpetrati all’interno della famiglia rimangono senza sanzione. Il vantaggio più evidente è che, grazie a questa ricostruzione, la condanna a risarcire il danno derivante da una condotta illecita può concorrere con le sanzioni tipiche del diritto della famiglia: addebito, sequestro dei beni, esclusione dalla gestione dei beni comuni. La principale criticità risiede nella difficoltà della donna, che chiede di essere risarcita, di provare i comportamenti del proprio partner: a volta sfuggenti, ma per lo più limitativi della sua autonomia e libertà personale (c.d. mobbing familiare). Anche per rimediare a questo problema, una parte della dottrina costruisce un onere probatorio più attenuato per la vittima che chiede di essere risarcita, configurando la responsabilità per illecito endofamiliare, come una responsabilità para-contrattuale sul genere del sistema configurato per la responsabilità medica, e sulla base di una premessa di doverosa protezione del soggetto debole (malato, donna ecc.)”.

Elisabetta Rosi – consigliere in Corte di Cassazione


“Va ribadito il ruolo sussidiario che la legislazione penale riveste, così come previsto nell’ambito delle strategie della Convenzione Europea contro la violenza sulle donne e contro la violenza domestica – varata a Istanbul l’anno scorso – che vedono nella prevenzione e soprattutto nella protezione delle vittime, la chiave di volta del contrasto al fenomeno della violenza contro le donne. Certamente un’efficace azione di protezione delle vittime dalle offese penalmente rilevanti che si manifestino inizialmente – come stalking, maltrattamenti, lesioni personali, violenze sessuali, ecc. – contribuisce a inibire il crescendo dei comportamenti di sopraffazione che caratterizzano le violenze contro le donne, crescendo che spesso conduce al femminicidio. Un’efficace azione di protezione potrebbe inoltre facilitare l’emersione di molte situazioni che restano invisibili, nella iniziale fenomenologia, o che sono presentati dalle stesse donne in modo da occultare la situazione di violenza subìta: come ad esempio le dichiarazioni al pronto soccorso di accidentalità delle lesioni (come il giustificare ecchimosi dicendo di essere caduta dalle scale). Sarebbe certamente auspicabile che la ratifica della Convenzione di Istanbul costituisse l’occasione per dare implementazione alla direttiva dell’Unione europea n. 29 del 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione di tutte le vittime di reato, con particolari disposizioni per le vittime della violenza nelle c.d. close relationship. Tale intervento è ancor più necessario in quanto il nostro sistema processuale penale deve fare i conti con il problema, ormai sistemico, dei tempi di durata dei processi penali non ragionevoli non solo riguardo agli imputati, ma anche in riferimento alle vittime. Intanto, in attesa di un intervento organico e non più differibile, occorre che il sistema giudiziario insista per l’inserimento tra i criteri di priorità nella trattazione dei processi, dei reati relativi alla violenza di genere; e promuova la modifica di approccio culturale da parte dei giudici verso tale tipo di reati, non solo stabilendo una formazione permanente sulle tematiche di genere aperta ai contributi delle diverse professionalità non giuridiche, ma sviluppando la consapevolezza della necessità di un uso della lingua italiana coerente con il rispetto dei diritti anche delle vittime particolarmente vulnerabili, nella redazione delle sentenze e degli altri provvedimenti giudiziari. E infine cooperi con le tutte le iniziative che vogliano riconoscere alla vittima i diritti di assistenza ed eventuale  protezione nel processo”.

Vittoria Tola – responsabile nazionale Udi e tra le promotrici della Convenzione “No More!” contro la violenza sulle donne–femminicidio


“I problemi evidenziati dalle diverse relazioni dimostrano la straordinaria complessità del fenomeno e l’articolazione e le difficoltà delle risposte necessarie. Anche solo a volersi fermare  sulle ultime considerazioni che riguardano la eccessiva lunghezza dei processi e il problema del risarcimento delle vittime e di come sia difficile definire un criterio, mi chiedo quanto sia valutabile, per esempio, nel caso della ragazzina di Montalto stuprata da un gruppo di amici che hanno avuto la solidarietà di un intero paese (sindaco in testa), la vita distrutta di un’adolescente che all’epoca aveva 15 anni e che oggi ne ha 22, mentre il processo deve ancora concludersi. Un processo che nel frattempo ha distrutto la vita della ragazza, quella della sorella, del fratello, della madre e del padre. Una giovane che ha perso la scuola, lei che sognava di andare all’università, da cui si è ritirata per quanto stava male, lei che era la più brava della classe, accontentandosi di lavoretti che non la mettono a contatto con la gente del luogo. Tutto questo quando allo stupro non corrisponde nessuna solidarietà sociale e culturale, a cui si aggiunge la vittimizzazione secondaria anche in tribunale. Mi chiedo come siano valutabili i danni psico-fisici di una donna torturata e annichilita dal marito o dal compagno di fronte a i suoi figli: danno psicologico, fisico, sociale, un danno nel corpo che diventa malattia, come diceva Elvira Reale. Anch’io ho visto sviluppare tumori come quello che ha ucciso Donatella Colasanti (la ragazza sopravvissuta nello stupro del Circeo), o malattie gastroenterologiche che resistono a farmaci e interventi chirurgici, o malattie cardiache e/o mentali. Per dare un ordine di grandezza solo dei costi sanitari delle vittime di violenza domestica, l’Inghilterra ha valutato una cifra pari a circa 125 euro per abitante del Regno Unito. Gli interventi di questo tavolo dovrebbero essere proposte e rilanciate in modo pubblico dal ministro della giustizia, dell’interno, della sanità dimostrando non solo di conoscere il lavoro degli operatori delle strutture che li riguardano, ma anche per avere consapevolezza delle potenzialità e dei punti critici dello Stato che rappresentano. Perchè non ha detto niente la ministra Fornero, che oltre al ministero del Welfare ha il coordinamento di tutte le politiche sulla violenza come ministra delle pari opportunità? Perchè Monti non ci ha ricevuto come chiesto dalla Convenzione No more! per ascoltare quanto chiedevamo? La Convenzione No More! ha tentato di indicare gli ambiti e le priorità su cui intervenire a partire da dati mai raccolti in modo sistematico ma riassunti dalla stampa come appunto il numero dei femmincidi in Italia che il ministero degli interni non ha mai raccolto in maniera organica. Un fenomeno grave che non sparisce mettendo la testa sotto la sabbia, soprattutto se l’ambito è quello della famiglia che è il cuore di relazioni violente e che coinvolge l’ambito penale e civile. Oggi discutiamo di femminicidio e di che cosa questa parola significhi ma le parole per dire la verità in questo paese fanno sempre fatica ad affermarsi come rivelatrici di senso e di realtà. Forse perché sono fenomeni che molti pensano come problemi privati e quindi fuori del patto sociale che definisce lo Stato e che si definisce come patto sociale tra uomini da cui le donne sono escluse: nonostante abbiamo firmato la Dichiarazione universale dei diritti umani e la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazioni contro le donne. Storicamente veniamo da una violenza maritale e patriarcale accettata anche nei codici. Una violenza che emerge come richiesta di reato contro la persona e non contro la morale, come recitava il Codice Rocco, quando il movimento delle donne lanciava la legge di iniziativa popolare nel 1979: una battaglia che durerà 16 lunghi anni con voti laceranti in parlamento perché molti, in quella sede, non volevano affrontare proprio lo stupro coniugale. Sappiamo com’è finita, e mentre le donne costruivano i centri antiviolenza, maturava la legge del 2001 per l’allontanamento del familiare violento. Lo stalking, già definito dal DPO e dal ministero della giustizia, pur essendo stato sollevato da tempo come questione legata alle molestie persecutorie, è stato lasciato in eredità al governo di centro destra che lo ha deformato e collocato in un dibattito politico dove la violenza contro le donne virava spesso verso politiche emergenziali e securitarie, oltre che xenofobe. Oggi, anche in concomitanza con la consapevolezza dell’alto numero di femminicidi, con la necessità della ratifica della Convenzione di Istanbul – che molti dicono possibile già in questo fine di legislatura – si propongono nuove leggi. Eppure prima di lanciare nuove proposte, soprattutto di tipo penale – che danno la risposta più facile ma meno necessaria per le vittime – sarebbe necessario fare una verifica attenta della nostra legislazione, e capire se servono altre leggi e di che tipo, o se servono politiche precise di aiuto alle donne, politiche di formazione di tutti coloro che sono coinvolti nell’accoglienza, nel recupero, nella difesa e nella tutela di una donna che subisce violenza. In un contesto in cui la prevenzione si opera attraverso la maturazione di una nuova coscienza con obiettivi culturali che si devono porre anche nelle scuole di ogni ordine e grado, nelle università, e soprattutto attraverso i mass media. Si dice sempre che la violenza contro le donne è un fenomeno culturale, un fenomeno iscritto nella tradizione, che viene da lontano, che appartiene alla mentalità. Ma cultura in questo caso va usata nella sua accezione antropologica dove significa l’insieme delle idee, valori, strutture fisiche e simboliche che definiscono le norme di un determinato popolo o comunità, definendo anche e soprattutto un potere e chi lo esercita in maniera dominante ed egemonica. In questo senso rimanda a una precisa forma storica, millenaria e potente, in crisi ma capace di colpi di coda formidabili: un patriarcato con forme ancora dominanti nella mentalità collettiva, soprattutto in Italia”.

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