Geraldina Colotti
pubblicato su Il Manifesto, 9 marzo 2007
Carmen, Rosa, Claudia..., nomi di donna su un gruppo di croci dipinte di rosa e piantate nel deserto al confine tra Stati uniti e Messico. Sono le vittime degli omicidi avvenuti nel corso di 14 anni nella cittadina messicana di Ciudad Juárez: oltre 400, secondo le cifre di Amnesty international, che ha dedicato loro l'iniziativa di ieri a Roma alla Casa del cinema. E altre 12 vittime solo dall'inizio del 2007. In programma, il documentario di Elisabetta Andreoli e David Goldsmith, El soldato, el policia, el juez, e alcune immagini del film Bordertown di Gregory Nava, che l'organizzazione per i diritti umani ha deciso di patrocinare. Il film sarà nelle sale il 23 marzo, distribuito dalla casa editrice Medusa, che medita di accludere al film anche il documentario. E mentre scorrono le immagini di Bordertown, un thriller che scava in quello che ormai viene definito il femminicidio di Ciudad Juárez, piange Julia Ester Cano, madre di una ragazza sequestrata e uccisa nel '95. La donna, che interviene a nome dell'associazione di famigliari delle vittime «Rivogliamo le nostre figlie a casa», denuncia il clima di omertà, omissioni e intimidazioni che ha circondato quegli omicidi: «Nel caso di mia figlia - dirà poi - il colpevole era legato al narcotraffico, ma le altre vittime sono state uccise da poliziotti o da persone potenti del posto. Adesso, le autorità assicurano che cambieranno le cose, ma finora continuiamo a subire minacce e non abbiamo visto risultati». Come denunciano da tempo numerose organizzazioni per i diritti umani, spesso si sono costruiti falsi colpevoli, manomesse le prove, coperte le responsabilità di colpevoli eccellenti. Ma perché sono state uccise tutte quelle donne? «Gli omicidi - dice la documentarista Andreoli - trovano spiegazione in una serie di fragilità». Le ragazze, tutte fra i 13 anni e i 26, erano per la maggior parte lavoratrici delle maquillas, le fabbriche delocalizzate a sfruttamento intensivo che impiegano a bassissimo costo manodopera di immigrazione interna, in prevalenza femminile: ragazze sole e senza appoggio, approdate in una città di confine, «in un tessuto urbano precario». Spesso, sono state aggredite e sequestrate tornando a casa dal lavoro, di notte. «Ora - dice ancora Julia Cano - le operaie hanno organizzato un trasporto autonomo, ma vogliamo che le autorità ci proteggano, che le nostre figlie possano girare tranquille». Di far pagare alla fabbrica il costo del trasporto, neanche a parlarne. Chi ha provato a organizzare un sindacato, nelle maquillas, ha rischiato la vita ed è stato cacciato.Il documentario di Andreoli e Goldsmith mostra l'esodo forzato dei contadini poveri e degli indios espropriati delle loro terre verso quelle zone di frontiera. «L'esercito - afferma un generale democratico intervistato - in Messico ha troppo potere». I militari irrompono, devastano, stuprano. L'appello di Amnesty riguarda anche due indie Tlapaneca, stuprate nello stato di Guerrero da militari messicani che non hanno mai pagato per quel delitto. E il film di Nava mette sotto accusa l'Alca, l'accordo di libero commercio delle Americhe fra Messico e Stati uniti, che - privatizzando beni e servizi - si appropria dei territori ricchi di risorse e obbliga gli abitanti originari a cercare lavoro altrove. Ma, in Messico come fra le pareti domestiche di tutto il mondo, la donna viene uccisa in quanto donna, o perché non è come l'uomo o la società vorrebbero che fosse: «il femminicidio - ha scritto Barbara Spinelli dei Giuristi democratici - è un fatto sociale». Una tesi in parte assunta anche da Amnesty international, che sollecita «misure concrete per porre fine al più grande scandalo dei diritti umani dei nostri tempi: la violenza sulle donne».
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