FEMMINICIDIO

domenica 1 febbraio 2009

FEMMINICIDIO di BARBARA CICIONI

Le mie impressioni sull'esame dell'imputato, Roberto Spaccino.

Nei giorni 27 e 28 gennaio si è tenuto, nell’ambito del processo per il femminicidio di Barbara Cicioni, l’esame di Roberto Spaccino, imputato di aver ucciso la moglie .
Molti i suoi parenti presenti in aula, poche le femministe, tutte compagne della rete delle donne umbre. Questo, a quanto pare, è stato elemento di forza per Spaccino, che psicologicamente ha retto molto bene ai due giorni di esame, sempre evitando lo sguardo della suocera, Simonetta, la mamma di Barbara Cicioni.
Nonostante egli continui a negare la propria responsabilità per l’omicidio della moglie, numerose e rilevanti restano le contraddizioni nella “sua” ricostruzione della sera dell’omicidio, del suo litigio con la moglie, della sua vita coniugale.
Ma, aldilà degli aspetti che riguardano l’accertamento la verità processuale, assistere all’esame, per chi estraneo al processo, avrebbe significato cogliere il grado di “normale violenza” della coppia italiana. Un elogio della violenza “soft”, nel quotidiano.
Spaccino, imputato anche per maltrattamenti nei confronti della moglie e dei figli per tutto l’arco della vita coniugale, per rispondere alle accuse mosse dal Pm ed alle testimonianze, già numerose, di episodi di violenza cui avevano assistito anche terzi, si è speso in una sofistiche distinzioni tra violenze “perbene” e violenze “permale”. Io non sono il mostro che hanno dipinto la stampa e la televisione, ha detto. “io a mia moglie non gli ho mai messo le mani addosso, non gli ho mai menato”.
E si spiega. O, forse, a mio avviso ci spiega quello che tanti mariti, tanti padri, tanti figli maschi pensano, quando picchiano le mogli, le figlie, le sorelle, le madri, e si stupiscono se queste se ne vanno, li lasciano, o li portano in Tribunale.
Spaccino rappresenta l’italiano medio, quello che statisticamente fuori casa è lo stimato paesano e professionista, il piacione, e dentro è l’aguzzino. Ascoltare lui, aiuta di certo a capire quali sono i meccanismi di pensiero alla base della violenza, quali sono i meccanismi culturali da scardinare per cambiare qualcosa.
A una corte di giurati attenti, alla sua difesa agitata, alla P.M. che lo esamina ed agli avvocati di parte civile a volte attoniti dalle risposte, racconta con tranquillità, anzi, arrabbiato e urtato quando non viene capito, la distinzione tra discussione (solo insulti verbali) e litigio (quando si menano le mani). Schiaffetti, schiaffoni, “scoppolotti”, “sventoloni”, “smanate” non sono botte. “Botte”, risponde Spaccino a una PM che non riesce a capire, “sono quelle che lasciano il segno” come i “boccaloni”, gli schiaffi forti dati contromano, quelli che invece qualche danno lo fanno, “gli schiaffi veri” che due, tre, quattro volte sono capitati, con Barbara.
Il quadro che ne emerge è quello di una violenza normale, non riconosciuta in quanto tale da Spaccino, che ingenuamente e con dovizia di particolari confessa i maltrattamenti, non riconoscendoli in quanto tali. “O mi spiego male io o non lo so”, dice spiegando le sue distinzioni, “io non ho mai alzato le mani a Barbara”, insiste.
Racconta di una famiglia in cui le discussioni –per il lavoro, per la gelosia di Barbara, o “se la cena non era pronta”, o “quella volta dei calzini” - erano normali: gli “schiaffetti reciproci” si ripetevano “spesso” e, in quei casi, gli sventoloni volavano “per calmarla”. Ma, sottolinea più volte lui, anche Barbara in questi casi “smanava”. Come se parare i colpi fosse una reazione che legittimasse i suoi. Si picchiavano, ma non per farsi male, spiega.
Chiede la PM “ma se dice che gli schiaffetti reciproci è normale, perché dice io non ho mi alzato le mani?” “Perché erano schiaffetti leggeri” risponde lui.
E volavano le parole: oziosa, sfaticata, mi fai schifo, sei un cesso, una puttana come tua madre (colpa della madre, quella di essersi separata in giovane età da un marito violento).
Le discussioni avvenivano anche davanti ai bambini, che li vedevano arrabbiati, “ma solo in qualche discussione leggera”.
Anche quella maledetta sera, nella discussione con Barbara, erano volate delle smanate, e quando lei –secondo la sua versione- si era messa da sola un cuscino sulla faccia, per non far sentire la discussione ai bambini che dormivano nella stanza di fianco, lui l’aveva colpita sul cuscino con degli schiaffetti, “ma leggeri”, non forti, e parava i suoi colpi. Si, perché Barbara, quella sera, gli aveva pure, con una delle sue smanate, fatto male a un dito. Forse l’ha presa anche per il collo, “ma se l’ho fatto è per difendermi”, dice lui, correggendo quanto aveva dichiarato in fase di indagini preliminari, dicendo che non l’aveva presa per il collo, ma forse, toccata sul collo.
Insomma, per Spaccino le parole fanno la differenza, ma bisogna sempre capire come le intende lui. Ad esempio, spiega alla Corte, era vero che, come emerso da alcune testimonianze, si rivolgeva spesso, in presenza della moglie ma anche parlando di lei con altri, “io questa prima o poi l’ammazzo”, ma spiega Spaccino, è un modo di dire del suo paese, “da noi si usa spesso”, “era un intercalare nostro, mio e di mia moglie”. Però, dice, portatore di una saggezza antica, “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. E si apre un surreale siparietto che, se non fosse stato per il contesto, sarebbe stato a dir poco esilarante. “se avessi dovuto uccidere tutti quelli a cui ho detto prima o poi ti ammazzo”, continua Spaccino, forse non ci sarebbe più vivo neppure il suo difensore, che da giovane, quando giocavano a calcio insieme, se lo era sentito dire da lui parecchie volte. La PM lo riprende, chiedendogli se oltre a sua moglie era morto qualcun altro, di quelli a cui l’aveva detto, lui non coglie però la gravità del contesto, e, nell’imbarazzo generale, risponde che sì, erano morti, “ma non di morte violenta, voglio sperare”, osserva la PM, cui lui risponde si.
Spaccino è esasperato dalle domande sul suo rapporto con la moglie, si arrabbia, dice che tutti ce l’hanno con lui e che “io non ne posso più, non posso pensare di avere fatto quello che dicono di aver fatto”, e insiste: “Io a mia moglie non ce l’ho mandata in ospedale, io ne ho vista di gente che fa violenza, che mena la moglie, io non sono così”.
E sorride, nel controesame, in cui risponde alle domande, emblematiche pure queste della linea difensiva, che uno dei suoi difensori gli fa a raffica: “Fuma? Beve? Gioca d’azzardo? Ha mai avuto una relazione extraconiugale fissa?” Tutti dicono che lui è cattivo, ma ….Roberto non beve, non fuma, non gioca d’azzardo, tutti gli anni portava la famiglia in vacanza al mare, regalava le rose alla moglie ad ogni compleanno, salvo poi far scegliere i regali per lei alla zia, “perché si lamentava che gli regalavo sempre le stesse cose”. E, ogni mattina, portava la colazione a tutti a lavorare. E non ha mai fatto delle risse, avuto delle denunce. E’ vero che ha detto qualche volta pure ai suoi figli “ti ammazzo”, ma l’ha già spiegato, è un modo di dire. Se mai ci fosse bisogno di confermare questa sua versione, rinforzarla, gli domanda il suo difensore “ha mai desiderato la morte dei suoi figli?”.
Ogni commento è superfluo.
Si arrabbia Spaccino anche quando si parla delle sue relazioni extraconiugali, (“Barbara non sapeva delle mie scappatelle”) le tante donne conosciute alle terme, quelle conosciute nel giro del calcio, le clienti. Esattamente come avvenuto in sede interrogatorio, alla domanda della PM, se mai avesse fatto delle avances a donne al di fuori del matrimonio, se avesse avuto delle storie, convintamente risponde di no, anche qui accusando di essere stato dipinto male dalle testimonianze, che non ha avuto nessuna scappatella…”si dice che io andavo al night tutte le sere, non è vero, roba che io, nella mia CARRIERA, ci sono andato solo qualche volta”. E, per approcciare, nega, come testimoniato da una ragazza del night, di aver raccontato che la moglie era malata di cancro, che uno dei figli non era suo…”quando stai li qualcosa ti inventi”….In realtà, racconta Spaccino smentendo le dichiarazioni rilasciate in sede di interrogatorio, questa ragazza gli aveva rubato il numero mentre era in bagno, e l’aveva “quasi ricattato”, straniera, facendogli gli squilletti spesso perché lei, straniera, voleva un passaggio….E anche la spogliarellista colombiana, conosciuta a una festa, con la quale ammette di aver avuto un rapporto sessuale, l’aveva provocato…l’aveva chiamato a vedere che doveva lavare dei tappeti, era una cliente della lavanderia…un rapporto in cambio del lavaggio di un tappeto…E poi F., M. e le altre…. Ma non è come dicono loro, lui non ci provava, faceva le battute, “io facevo le battute anche alle 65enni come clienti”. E, quando Barbara coglieva qualcosa, lui si arrabbiava. “Proprio non ne potevo più di questa gelosia..”, è per questo che convince la moglie ad aprire, a nome suo, una succursale della lavanderia in un altro paese, “perché lavorando insieme si discuteva più spesso”….”non la smetteva più di dire…sta gelosia, sta gelosia”.
Ma il punto chiave dell’esame, riguarda alcune intercettazioni avvenute in carcere, in cui Spaccino a colloquio con la sua famiglia, riporta che avrebbe detto al suo legale che era colpa sua della morte della moglie. E’ il suo legale a fargli la domanda, che cosa volesse dire con quelle parole. Nessuno si aspettava una confessione sull’omicidio, arrivati a questo punto del processo. Non alla fine di un esame agitato come questo, non a fronte di una domanda del suo difensore. Infatti, la domanda rappresenta solo un’occasione per Spaccino per raccontare come, in un primo momento, dopo il suo arresto, a causa di tutto quello che si diceva su di lui voleva uccidersi, “l’unica via di uscita” era di dire il falso, cioè dire che aveva ucciso lui la moglie (ma non l’ha detto, se non al suo legale nell’occasione cui si riferisce nelle intercettazioni). Poi ha parlato con la psicologa del carcere che, riferisce, gli ha detto “Perché devi dire il falso se non sei stato tu? Hai due figli fuori!”. Racconta Spaccino, “io questa parola me la sentivo sempre…colpevole…” ma “alla fine ho capito che non potevo dire il falso”, perché, come gli hanno detto la psicologa ed il prete cui era molto legato “non conviene, non conviene se tu hai la coscienza a posto”.
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A differenza del processo Meredith, una storia di sesso, droga, disagio giovanile, morbosamente seguita da media e pubblico, il processo Spaccino è emblematico dei nostri giorni, del radicamento della cultura patriarcale, del sessismo, della crisi del modello famigliare classico.Oltre la storia processuale, in questo esame, nelle testimonianze assunte in dibattimento, la storia di una relazione, la storia di come si concepisce ancora, nella mente di tanti italiani medi, la famiglia, e la relazione con le donne, quelle per bene, “il cervello di tutto”, che si prendono come moglie, ci si litiga, ci si discute per il lavoro, per la gestione dei soldi, per gelosia, e quelle per male, che quando capita, senza rovinare il rapporto coniugale, si abbordano, si seducono, si portano a fare cenette, si portano a letto.La presenza delle donne a questo processo è importante, per conoscere e denunciare questa cultura femminicida, e la non normalità, nei conflitti che pure esistono nelle relazioni coniugali, della violenza psicologica, delle percosse, delle umiliazioni quotidiane.Per ogni donna stuprata e offesa, siamo tutte parte lesa!
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Prossime udienze:12/3, 19/3, 2/4, 14/4, 21/4, 30/4Discussione e lettura del dispositivo: settimana dal 11 al 16 maggio (importantissima la presenza)

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