FEMMINICIDIO

mercoledì 27 agosto 2008

Il femminicidio per la prima volta entra in Parlamento

Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 113 del 21/2/2007

Intervento dell'onorevole Rosalba Cesini

Agosto 2006: Hina Saleem viene uccisa dal padre, che non condivideva le sue scelte. Titolo dei giornali: «Muore perché rifiuta la sharia»! Settembre 2006: Khaur P. si suicida perché non accetta il matrimonio impostole dalla famiglia. Titoli: «Donna indiana sceglie la libertà»! Febbraio 2007: Maha Saidi viene picchiata e segregata in casa. Titoli: «I poliziotti perquisiscono l'appartamento e sequestrano testi islamici»! Si è trattato di tre fatti gravi, esecrabili e da punire severamente; sono stati eventi che hanno suscitato scalpore e destato l'attenzione dei grandi quotidiani nazionali. Di più: ricordo che, a seguito di uno stupro in una città del nord, si è arrivati ad organizzare una serrata. Bene, si dirà, molto bene: finalmente, la nostra società si ribella allo scempio quotidiano! Invece, no: più semplicemente, un maghrebino aveva violentato una giovane italiana! Lo scandalo era costituito non dall'odioso crimine in sé, ma dal fatto che a commetterlo fosse stato un extracomunitario! Questo è il punto, colleghi! È questo il motivo per cui la mozione presentata originariamente dal gruppo della Lega Nord Padania - poi confluita nel documento di indirizzo unitario del centrodestra - su questi avvenimenti ci preoccupa e ci indigna. Ci indigna perché vuole sottolineare o dimostrare che «il mostro» è fuori di noi, vale a dire che è «l'altro da noi» per etnia e convinzioni religiose. Ci preoccupa poiché occulta un dato incontestabile, vale a dire il vero movente di questa tipologia di crimini. Mi rivolgo ai colleghi che mi hanno preceduto, ma tornerò successivamente su tale argomento. Richiamo altri esempi, presi dai giornali di oggi. Viterbo: padre e zio, italiani, violentano 3 bambine. Avellino: uccisa dal compagno della madre, italiano. Luglio 2006: Stella Palermo, uccisa ad Albenga dall'ex fidanzato, italiano. Silvia Mantovani, uccisa a Parma dall'ex fidanzato, italiano. Ottobre 2006: Norma Rado Mazzotti, uccisa in provincia di Padova dall'uomo con cui aveva una relazione, italiano. I titoli dei quotidiani, stavolta rigorosamente locali, vertono sul tema: lei lo lascia, lui, colto da raptus, la uccide. Due pesi e due misure, colleghe e colleghi, modi diversi e non neutrali di fare informazione, quindi, di «fare senso comune». In un caso, si sottolinea il movente religioso che obbliga ad annientare il desiderio di libertà; nell'altro, è l'attimo di follia che scatena il crimine. Eppure tutte le vicende, nessuna esclusa, hanno una radice comune: tutte queste donne sono state trucidate, picchiate, seviziate, violentate per lo stesso identico motivo, perché volevano decidere della propria vita. I loro assassini, seviziatori, picchiatori, violentatori, di culture e religioni diverse, hanno in comune la medesima incrollabile convinzione di essere i padroni della vita di figlie, di mogli, di fidanzate.
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I nomi di queste donne si aggiungono ad una lista lunghissima, dato che l'uccisione è, per le donne dai 14 ai 44 anni, la prima causa di morte in Europa. Avete capito bene? La prima causa di morte in Europa per le donne, in questa fascia di età, non è una malattia, non è il cancro, non sono gli incidenti stradali, ma è l'uccisione per stupro, per percosse, per non perderne il possesso! Ma veniamo all'Italia. L'ISTAT, nel rapporto sulla sicurezza dei cittadini, ci informa che, ogni giorno, sette donne, in Italia, sono violentate. Il 3 per cento della popolazione femminile tra i 14 e i 59 anni - mezzo milione di donne - ha subito una violenza. Dieci milioni di donne - il 50 per cento - ha subito una molestia a sfondo sessuale. Il 3 per cento ha subito ricatti sessuali sul posto di lavoro per essere assunta o per un avanzamento di carriera. Il 3 per cento degli stupri sono commessi da estranei, mentre la metà sono commessi da mariti, da fidanzati, da «ex», da parenti stretti. Il rapporto Eures-Ansa ci dice che, nel 2005, 174 donne sono state uccise; 138 di loro in famiglia. Telefono Rosa ci informa che, nel 2005, sono triplicate le denunce di stupro rispetto all'anno precedente e la questura di Roma ci dice che, nella capitale, ogni tre giorni, una donna subisce uno stupro. Da un'indagine nei centri antiviolenza dell'Emilia, si evince che la stragrande maggioranza delle donne vittime di violenze e degli autori delle stesse sono persone del tutto normali e che i crimini, per lo più, si consumano in famiglia. Persone normali, dunque, questi criminali e per di più familiari. Come dire: il killer non bussa, perché ha le chiavi. C'è davvero da preoccuparsi dello stato delle famiglie in Italia. Visti i dati, cosa avremmo da insegnare agli altri, dall'alto di questa italianissima normalità violenta? Ci auguriamo che il dibattito su questi temi, seppure iniziato in maniera strumentale, possa, comunque, essere utile per portare all'attenzione del Parlamento, e forse anche del paese, un tema che riguarda ed interroga tutti, uomini e donne che aspirano ad una società fondata su rapporti civili tra i sessi. Intanto, riteniamo utile cominciare ad usare un termine più appropriato per nominare i crimini in danno al genere femminile. Questa parola, non coniata da noi, è femminicidio. Cito da un testo elaborato da un gruppo di giuriste democratiche: per femminicidio deve intendersi ogni pratica violenta, sia fisica che psicologica, che attenta all'integrità, alla salute, alla libertà o alla vita della donna, con il fine di annientarne l'identità attraverso l'assoggettamento fisico e psicologico, fino alla sottomissione o alla morte della vittima. E di femminicidio, colleghe, è corretto parlare ogni volta che una donna è vittima di un atto criminoso, perché è donna, perché specificatamente non è la donna che l'uomo, quell'uomo, e la società vorrebbero. Il femminicidio è un fenomeno trasversale a classi e culture ed è occultato perché, di solito, si consuma in famiglia. Ha origini da tradizioni patriarcali, usanze che quasi ovunque nel mondo sono veicolate da strutture sociali, come le religioni, il sistema formativo, quello informativo e giuridico, innanzitutto per controllarne la peculiarità e la funzione procreativa e per garantire la subordinazione delle donne in ogni sfera pubblica e privata. Nel nostro paese, grazie alle lotte della sinistra e del movimento delle donne, in particolare dell'UDI, di cui mi onoro di far parte, molti passi avanti sono stati fatti. Non possiamo dimenticare che solo fino a pochi anni fa lo stupro era ancora un reato contro la morale, così come sappiamo quali e quanti effetti devastanti derivino dalla legge n. 40 del 2004, che obbliga l'impianto persino degli embrioni malati nel corpo delle donne e che le costringe al «nomadismo procreativo»; passi avanti, certo, ma quanta strada da fare ancora per vincere la discriminazione sessuale! Per questo vogliamo denunciare con forza l'ipocrisia di chi si scandalizza per il velo imposto alle musulmane e, contemporaneamente,
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si batte per imporre la presenza di associazioni antiabortiste nei consultori. Per questo denunciamo l'ipocrisia di chi condanna una religione, quella islamica, che si fa legge dello Stato, ma, contemporaneamente, sostiene le gerarchie cattoliche nella pretesa che lo Stato non legiferi su tematiche ad esse sensibili. C'è bisogno di coerenza, colleghi, e di obiettività. Bisogna saper vedere che laddove si propugni la volontà di sottomissione delle donne, laddove si voglia impedire loro di avere signoria sul proprio corpo, laddove le si voglia relegare ad una mera funzione di contenitore privo di facoltà di decidere della propria sessualità e della propria capacità procreativa, ebbene, qualunque sia il contesto, la c'è discriminazione sessuata. Tutte le donne consapevoli che l'autodeterminazione e l'affermazione dell'inviolabilità del corpo femminile sono l'unica via per l'affermarsi di rapporti civili tra i sessi chiedono anzitutto che lo Stato si liberi da ogni ingerenza religiosa e faccia rispettare le proprie leggi, al di là di ogni convenzione o tradizione religiosa. Per il dispiegarsi della democrazia e dell'eguaglianza sostanziale lo Stato, pur garantendo il pieno rispetto delle libertà religiose, deve essere laico, totalmente e completamente laico, ed allo Stato laico compete rimuovere, come afferma la nostra Costituzione, tutti gli ostacoli che si frappongono al dispiegarsi dell'uguaglianza dei diritti. Signora sottosegretario, il popolo della sinistra e, in particolare, le donne di quel popolo, hanno molte attese nei confronti del nostro Governo; vengano allora ripristinati al più presto i diritti calpestati dalle politiche neoliberiste e dall'approccio moralista dei Governi di destra, e possano finalmente vedere la luce i nuovi diritti di cittadinanza per cui si battono le donne italiane ed immigrate. Si correggano dunque e subito le vergognose norme della cosiddetta legge Bossi-Fini e si avvii una seria politica di integrazione! Infine, così come per ogni essere umano non è sufficiente vivere la dimensione lavorativa per avere una coscienza di classe, per una donna, per ogni donna, non basta essere nata con il corpo di femmina per avere consapevolezza dell'origine e degli esiti del conflitto tra i sessi: lo constatiamo anche dal dibattito in quest'aula. Noi riteniamo che questa consapevolezza vada, invece, sostenuta da uno Stato per definizione laico e democratico. Pertanto chiediamo che questo Governo riservi adeguate risorse e strumenti per la scuola, per le istituzioni territoriali e sociali, per la promozione di una cultura del rispetto delle differenze e dei generi, incentrata sull'inviolabilità del corpo femminile, in modo che sia possibile, all'inizio del terzo millennio, nel nostro paese, avviare un percorso comune di uomini e donne, anche immigrati, sotto il segno del confronto paritario tra i sessi.

martedì 26 agosto 2008

Il femminicidio sullo schermo e nella realtà

Il «femminicidio» sullo schermo e nella realtà
Geraldina Colotti
pubblicato su Il Manifesto, 9 marzo 2007

Carmen, Rosa, Claudia..., nomi di donna su un gruppo di croci dipinte di rosa e piantate nel deserto al confine tra Stati uniti e Messico. Sono le vittime degli omicidi avvenuti nel corso di 14 anni nella cittadina messicana di Ciudad Juárez: oltre 400, secondo le cifre di Amnesty international, che ha dedicato loro l'iniziativa di ieri a Roma alla Casa del cinema. E altre 12 vittime solo dall'inizio del 2007. In programma, il documentario di Elisabetta Andreoli e David Goldsmith, El soldato, el policia, el juez, e alcune immagini del film Bordertown di Gregory Nava, che l'organizzazione per i diritti umani ha deciso di patrocinare. Il film sarà nelle sale il 23 marzo, distribuito dalla casa editrice Medusa, che medita di accludere al film anche il documentario. E mentre scorrono le immagini di Bordertown, un thriller che scava in quello che ormai viene definito il femminicidio di Ciudad Juárez, piange Julia Ester Cano, madre di una ragazza sequestrata e uccisa nel '95. La donna, che interviene a nome dell'associazione di famigliari delle vittime «Rivogliamo le nostre figlie a casa», denuncia il clima di omertà, omissioni e intimidazioni che ha circondato quegli omicidi: «Nel caso di mia figlia - dirà poi - il colpevole era legato al narcotraffico, ma le altre vittime sono state uccise da poliziotti o da persone potenti del posto. Adesso, le autorità assicurano che cambieranno le cose, ma finora continuiamo a subire minacce e non abbiamo visto risultati». Come denunciano da tempo numerose organizzazioni per i diritti umani, spesso si sono costruiti falsi colpevoli, manomesse le prove, coperte le responsabilità di colpevoli eccellenti. Ma perché sono state uccise tutte quelle donne? «Gli omicidi - dice la documentarista Andreoli - trovano spiegazione in una serie di fragilità». Le ragazze, tutte fra i 13 anni e i 26, erano per la maggior parte lavoratrici delle maquillas, le fabbriche delocalizzate a sfruttamento intensivo che impiegano a bassissimo costo manodopera di immigrazione interna, in prevalenza femminile: ragazze sole e senza appoggio, approdate in una città di confine, «in un tessuto urbano precario». Spesso, sono state aggredite e sequestrate tornando a casa dal lavoro, di notte. «Ora - dice ancora Julia Cano - le operaie hanno organizzato un trasporto autonomo, ma vogliamo che le autorità ci proteggano, che le nostre figlie possano girare tranquille». Di far pagare alla fabbrica il costo del trasporto, neanche a parlarne. Chi ha provato a organizzare un sindacato, nelle maquillas, ha rischiato la vita ed è stato cacciato.Il documentario di Andreoli e Goldsmith mostra l'esodo forzato dei contadini poveri e degli indios espropriati delle loro terre verso quelle zone di frontiera. «L'esercito - afferma un generale democratico intervistato - in Messico ha troppo potere». I militari irrompono, devastano, stuprano. L'appello di Amnesty riguarda anche due indie Tlapaneca, stuprate nello stato di Guerrero da militari messicani che non hanno mai pagato per quel delitto. E il film di Nava mette sotto accusa l'Alca, l'accordo di libero commercio delle Americhe fra Messico e Stati uniti, che - privatizzando beni e servizi - si appropria dei territori ricchi di risorse e obbliga gli abitanti originari a cercare lavoro altrove. Ma, in Messico come fra le pareti domestiche di tutto il mondo, la donna viene uccisa in quanto donna, o perché non è come l'uomo o la società vorrebbero che fosse: «il femminicidio - ha scritto Barbara Spinelli dei Giuristi democratici - è un fatto sociale». Una tesi in parte assunta anche da Amnesty international, che sollecita «misure concrete per porre fine al più grande scandalo dei diritti umani dei nostri tempi: la violenza sulle donne».

lunedì 25 agosto 2008

Ti amo ti posseggo ti uccido

Ti amo ti posseggo ti uccido

Articolo di Beatrice Busi comparso su Liberazione il giorno 08/08/08
I commenti tra parentesi sono miei.

Nel 2006, in Italia, sono state centododici le donne uccise dagli uomini che avevano più vicini. Mariti, ex fidanzati, padri, compagni. Quattromilacinquecento le denunce per abusi e aggressioni stimate dal ministero degli Interni. Tante, troppe, sapendo che la maggior parte delle violenze non viene denunciata. Un lungo anno di violenza maschile contro le donne, come quelli venuti prima e purtroppo, c'è da immaginare, anche quelli che verranno. Ce lo racconta attraverso quasi trecento casi, tratti da giornali e agenzie di stampa e raccolti in ordine cronologico, e uno zoom più approfondito su quindici storie un libro collettivo, Amorosi assassini. Storie di violenze sulle donne (Laterza, pp. 280, euro 16), curato dalle giornaliste e scrittrici del gruppo Controparola. Un documento importante, che dà sostanza e corpo alle disperanti statistiche che, in tutti i modi, da più di due anni, andiamo ripetendo dalle pagine di Liberazione . Ma quello che colpisce del libro è soprattutto la lucidità con la quale si denuncia il clima di acquiescenza, ai limiti della complicità, dei contesti nei quali avvengono le violenze. Un clima che interpella e deve interrogare tutti e tutte. Significativamente, il libro si apre con il caso Francesco Bisceglie, 69 anni, detto padre Fedele, il prete-padrone dell'Oasi francescana di Cosenza che aveva trasformato il "suo" centro di accoglienza in un luogo di violenze, abusi e ricatti sessuali, ripetuti, sistematici. Sì, perché quando la vicenda emerge in tutti i suoi squallidi contorni grazie alla denuncia di una suora, «da tutte le parti si alzano voci che lo difendono alla cieca senza nemmeno sapere cosa sia successo». Sono le voci dei tifosi del Cosenza - padre Fedele era un assiduo frequentatore della curva oltreché di salotti televisivi -, quelli dei volontari e dei collaboratori del centro. Ma anche quella del vescovo della città che, preoccupato, chiede di evitare «giudizi frettolosi». «Comunque, tutti trovano normale e ovvio che la suora e, con lei, altre donne mentano». «Ho scelto di raccontare brevemente questa storia - spiega Dacia Maraini - perché dentro c'è tutta l'Italia di oggi, in bilico tra le tradizioni secolari degli abusi che ricordano le usanze feudali e un'organizzazione tecnologica che dà l'illusione della modernità: l'ipocrisia accettata come dato di fatto, l'avversione per la testimonianza delle donne, che viene subito screditata, da una parte e dall'altra, la passione popolare per il calcio, l'uso disinvolto e volgare del linguaggio televisivo, una conoscenza ben radicata delle leggi del mercato del lavoro e la possibilità di scambiare protezione contro sesso». Un'ipocrisia che ritroviamo anche nella storia raccontata da Claudia Galimberti, quello di Francesca Baleani, salvata per miracolo: picchiata brutalmente, strangolata con un filo del telefono dal suo ex marito che, credendola morta, la carica in macchina e la butta in un cassonetto alla periferia della città. Lui, Bruno Carletti, direttore artistico del teatro comunale di Macerata, come spesso accade, ha un'immagine pubblica di rispettabilità che in molti si sono sentiti in dovere di confermare. Il sindaco, che lo definisce un caso di «umana pietà». Il direttore del teatro, secondo il quale, Carletti avrebbe confuso il teatro con la realtà. Padre Iginio Ciabattoni, responsabile della comunità Croce Bianca alla quale è stato affidato Carletti come misura alternativa al carcere preventivo, con una discutibilissima intervista rilasciata a Il Resto del Carlino : secondo lui, l'ex marito di Francesca era malato d'un amore estremo, cieco, tanto da diventare violento e omicida e lei non troverà mai qualcuno che l'ami così tanto. Troppo spesso, dopo la denuncia vengono altre ferite che ci riportano indietro di molti anni, «a quell'Italia che era ancora indulgente verso i carnefici e inquisitoria nei confronti della vittima». Come nella storia raccontata da Cristiana di San Marzano, quella di Marta, 13 anni, costretta, per mesi, da un gruppo di adolescenti, a "prestazioni sessuali" riprese coi telefonini e poi fatte girare su Internet. Marta prima additata, isolata, lasciata da sola. Se non fosse stato per quella donna, la madre di un compagno di scuola, che dopo aver visto le immagini ha fatto partire la denuncia. Marta costretta più volte a raccontare, a spiegare e rispiegare tutto nei particolari agli inquirenti. Marta e la sua famiglia che dopo la denuncia devono cambiare casa e quartiere per gli avvertimenti e le minacce che li bersagliano perchè lei ha osato difendersi contro quei giovani rampolli. «Nella cronaca irrompe l'ultima frontiera della violenza, quella tecnologica. Non basta aggredire, umiliare, stuprare. E non basta il vecchio bar dello sport, per farsi belli e far sapere quello che hai fatto. Per dimostrare che sei un duro, che il branco è padrone e fa quello che vuole. Oggi quello che conta è la condivisione con un branco ancora più ampio, addirittura virtuale». Il caso di Paola, stuprata perché lesbica fuori da un locale a Torre del Lago, raccontato da Maria Serena Palieri. «Il continente delle violenze cui sono soggette le lesbiche è al 90% oscuro, più sotterraneo ancora di quello delle violenze sessuali in genere: denunciare d'essere stata stuprata in quanto lesbica richiede infatti una doppia dichiarazione, quella della violenza subita e quella della propria idenità sessuale». E quanto coraggio ci vuole, anche solo a vivere, in una società omofobica, le cui istituzioni faticano a stigmatizzare le discriminazioni per l'orientamento sessuale o l'identità di genere, quando non ne negano l'esistenza. Che fare dunque? Come nominare questo complesso intreccio? Barbara Spinelli, giovanissima ricercatrice e avvocata dei Giuristi democratici, ci restituisce l'esperienza dei movimenti di donne nel Centro e Sud America in Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale (FrancoAngeli, pp. 208, euro 18). Un'esperienza esemplare, che è stata capace di coniare nuovi concetti e nuove categorie e di sostanziare attraverso campagne internazionali, di lotta e sensibilizzazione, la denuncia della violenza maschile contro le donne. Molte le parole chiave proposte e analizzate: femmicidio, femminicidio, ginocidio, patriarcato. Un sistema integrato al quale opporre la sorellanza tra donne, la denuncia, l'autodeterminazione. Femminicidio (in castigliano, feminicidio), scrive Spinelli nella premessa al libro, è «un nome nuovo per una storia vecchia quanto il patriarcato». Marcela Lagarde, sociologa e antropologa messicana, lo ha utilizzato per mettere in evidenza la matrice sistemica e strutturale della violenza contro le donne, che è sia sociale che istituzionale. Il termine si è poi diffuso per parlare di Ciudad Juarez, città di frontiera ai confini con gli Usa, che è diventata il simbolo delle uccisioni di donne «in quanto donne», dove la violenza sessista è amplificata dalla violenza neocapitalistica, ma anche la dimostrazione della potenza di denuncia, mobilitazione e trasformazione sociale di cui sono agenti i movimenti femministi. Lagarde anche grazie al suo ruolo di parlamentare si è fatta promotrice del dibattito internazionale per l'introduzione del femminicidio negli ordinamenti giuridici come reato specifico e dal 2004 dirige la Commissione speciale sul femminicidio in Messico. Il 18 marzo 2008 si è parlato di femminicidio per la prima volta anche in Italia, in un'aula di Tribunale, durante il processo per l'omicidio di Barbara Cicioni, ammazzata dal marito Roberto Spaccino nel maggio dello scorso anno. Al procedimento sono state ammesse come parti civili ben 5 associazioni, tre che si occupano di diritti delle donne, due di diritti umani, tra le quali i Giuristi democratici. «L'ammissione della costituzione dei Giuristi democratici come parte civile in questo processo ha una fortissima valenza, in quanto riconosce che il femminicidio, e nello specifico la violenza domestica, non rappresenta solo una lesione dei diritti della donna, un fatto privato, né tantomeno è un "fatto di donne", ma costituisce una profonda ferita per la società tutta». Spinelli sottolinea come, fino al 2004, «le forze dell'ordine messicane per contrastare il fenomeno si avvalevano soprattutto di misure poliziesche di controllo del territorio, in realtà inutile dal momento che, come è stato scoperto dalla Commissione, l'85 per cento dei femminicidi messicani avviene in casa per mano di parenti, e concerne non solo donne indigene ma spesso studentesse, impiegate, anche di media borghesia». E il 60 per cento delle donne poi uccise aveva già denunciato violenze e maltrattamenti. Una lezione particolarmente importante per l'Italia, se di pacchetto sicurezza in pacchetto sicurezza, l'azione istituzionale continua a strumentalizzare o a eludere il fatto che il luogo privilegiato della violenza maschile contro le donne è la famiglia. Ma se la risposta sicuritaria è inadeguata e inefficace non può nemmeno bastare una campagna per il riconoscimento giuridico del femminicidio come fattispecie di reato (e qui pare opportuna una nota di specificazione da parte mia -n. di Barbara-: se pure nel mio libro documento la campagna per il riconoscimento del femminicidio come reato in atto in alcuni paesi del Centro e Sud America, tengo a precisare, per evitare ogni fraintendimento, che nè nel libro nè in alcun altra sede ho mai sostenuto l'utilità di riconoscere in Italia il femminicidio come reato. Semmai sono interessata al processo di riconoscimento del femminicidio come crimine conro l'umanità a livello internazionale, questa si battaglia simbolica di spessore ben più rilevante). Non possiamo di certo aspettarci che il concetto che secondo Spinelli ha reso dirompente la parola pubblica femminista in America Latina possa assumere la stessa potenza una volta calato nel contesto europeo. (ecco, qui ci sarebbe parecchio da discutere invece......a mio avviso :-) - n.d. Barbara). Come scrivono le giornaliste di Controparola nell'introduzione ad Amorosi assassini , «la violenza contro le donne - comunque essa si declini - è la conseguenza dello stato delle relazioni tra i due sessi. E questi uomini, viene spontaneo pensarlo, non sono più i patriarchi sicuri di se stessi e del brutale diritto che esercitavano nell'Italia dell'altro ieri, contadina e arcaica. Sono uomini che reagiscono in questo modo a un potere che sfugge». Servono anche a noi quindi, più che mai, nuovi strumenti di analisi per descrivere senza timori e abitudini ideologiche il nuovo contesto nel quale vengono agite le vecchie forme di violenza. Strumenti che sappiano esplicitare la specificità della "nuova" violenza maschile tesa alla restaurazione di quell'ordine simbolico e materiale mandato in frantumi dal movimento femminista dei Settanta. Ma se gli uomini non sono più «patriarchi sicuri di se stessi», le donne non possono di certo essere semplicemente schiacciate nel ruolo di vittime. (e chi ce le schiaccia? Certo non chi parla di femminicidio conoscendo la storia del neologismo, posto che nasce come categoria volta proprio a destrutturare gli schemi del patriarcato! Vero è che se invece viene usato per la sua evocatività fonetica come slogan il rischio si pone...-n.d. Barbara-). E' questo il rischio che segnalano le femministe che criticano l'importazione tout court del concetto di femminicidio (e infatti il mio libro serve proprio per un "uso", ed una "importazione" consapevoli ;-) !! No al consumismo sloganistico -lo vado ripetendo da anni a quelle dell'UDI che si vantano di aver "coniato" il termine- !!! -n. di Barbara-). Perché, come ha scritto Renato Busarello venerdì scorso su Liberazione, nella prima puntata di questi "Smascheramenti" curata dal Laboratorio omonimo, è «meglio leggere le discontinuità anziché affidarci alle rassicuranti categorie di lungo periodo: "patriarcato" copre tutte le società a ogni latitudine negli ultimi 5mila anni e rende conto di strutture profonde, ma certamente non ci permette un'analisi degli strati più recenti e di regimi biopolitici specifici». Raccogliamo questa sfida prima possibile, perché di tempo non ce n'è davvero più.

Questo blog.

Il blog è nato per informare, e per raccogliere materiali utili e dati sul femminicidio, dunque sia connessi a questo neologismo, alla sua diffusione, al suo senso politico, sia concernenti ogni forma di violenza e discriminazione rivolta contro le donne e lesbiche "in quanto di sesso femminile".
Mi dispiace non riuscire ad aggiornare il blog con costanza, sto cercando piano piano di postare tutto il materiale in mio possesso e suddividerlo per categorie, per poi riuscire a tenere il blog aggiornato con le novità.
Chiedo venia per il caos iniziale, ma certo il poco tempo libero e la scarsa manualità con gli strumenti di editing web non mi aiutano, conto di migliorare con una maggiore applicazione !
La blogmistress :-)

Femminicidio. La violenza letta dalle donne.

In un mondo dove il moltiplicarsi di fonti di informazione (maschili) rende tutto relativo, e dove la violenza fisica degli uomini sulle donne e sulle lesbiche è diventata una realtà solo quando "certificata" dai dati ufficiali (OMS, ISTAT), mentre le altre forme di violenza (psicologica, economica, istituzionale) ancora dall'opinione comune spesso non vengono riconosciute come tali, parlare di femminicidio può apparire la solita trovata mediatica sensazionalistica, come se le femministe all'improvviso, per dare visibilità ad un problema nascosto, quello della violenza maschile sulle donne e sulle lesbiche, si fossero inventate una parola che, con la sua radice, "-cidio", fa impressione e rimanda alle stragi genocide, a quelle malvagità senza freni che è più facile azionare contro chi non si considera "un pari". Ma non è così. Femminicidio è una parola ormai sulla bocca di tante di noi, che, pur se adottata in Italia "per assonanza" e di rimando ai fatti di Ciudad Juarez, porta con sé una storia di azione, teorizzazione e normazione sessuata che segna il femminismo degli ultimi venti anni. Non uno slogan dunque, ma un neologismo dietro al quale si cela un intreccio, pressoché sconosciuto in Italia, di vite, lotte, speranze, di alleanza tra femministe attive nei movimenti, in politica, accademiche, giuriste, tutte impegnate per una liberazione degli uomini e delle donne dagli schemi di pensiero e di vita patriarcali che rendono le relazioni tra i generi diseguali. La teorizzazione sul femminicidio ha visto il suo sviluppo negli Stati Uniti ed in America Latina, ma ha portato all'affermazione di un concetto valido universalmente, volto ad analizzare e nominare la realtà della violenza degli uomini sulle donne e lesbiche in chiave sessuata, al fine di infrangere quella barriera rappresentata dalle strategie di occultamento e normalizzazione della violenza degli uomini sulle donne poste in essere dai media e dalle Istituzioni (maschili), svelando -dati alla mano- che la violenza (fisica, psicologica, economica, istituzionale) viene rivolta contro la donna "in quanto donna", perché non rispetta il ruolo sociale impostole, e dunque, per combatterla è necessaria una vera e propria "rivoluzione relazionale" che riconosca la donna come soggetto e che veda gli Stati impegnati per il concreto riconoscimento e rispetto dei diritti umani di donne e lesbiche, in particolare quello ad una vita libera da qualsiasi forma di violenza. Nel suo libro Barbara Spinelli (FEMMINICIDIO. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, ed Franco Angeli, pg 208, euro 18,00) ricostruisce la storia di questo termine e la propone alle lettrici italiane per andare oltre la cruda realtà di Juarez e mostrare come il femminicidio non rappresenta più solo una specificità centroamericana, ma ha assunto una valenza generale, uscendo dall'ambito importante, ma ristretto, della descrizione di un fenomeno locale per costruirsi come concetto politico, sociologico, criminologico, giuridico, di rilevanza interna e internazionale, che anche nel nostro Paese ci è utile per decostruire gli schemi patriarcali presenti in ogni ambito della vita, che ancora oggi impediscono la nostra piena autodeterminazione.