FEMMINICIDIO

martedì 16 febbraio 2010

Cedaw e violenza di genere: dal locale al globale

“Cedaw e violenza di genere in una prospettiva internazionale, esperienze a confronto”
Roma, 21 novembre 2009

CEDAW e Violenza di Genere: dal locale al globale
Intervento di Barbara Spinelli, Coordinatrice Gruppo Studi di Genere Giuristi Democratici

Buongiorno a tutte.
Come ha sostenuto Pierre Bourdieu, il dominio maschile sulle donne è la più antica e persistente forma di oppressione esistente al mondo.
Il Premio Nobel Amartya Sen, in riferimento alla condizione delle donne nel mondo, ha parlato di “hidden gendercide”, genericidio nascosto, per indicare come ancora oggi, in Italia e nel mondo, la prima causa di morte per le donne sia proprio l’uccisione da parte di un uomo, e come questo dato statistico sulle dimensioni della violenza di genere venga spesso occultato.
Nonostante la consapevolezza diffusa del fatto che la donna sia una Persona, e dunque, alla pari dell’uomo, portatrice di una sfera di dignità, di libertà, di integrità psico-fisica inviolabile, e nonostante tale principio sia stato giuridicamente codificato, assistiamo a palesi violazioni dei diritti umani delle donne in tutto il mondo, per il solo fatto di essere donne.

Noi Giuriste Democratiche, come molte altre femministe e studiose nel mondo, preferiamo parlare di “femminicidio”, per indicare la “matrice comune” di ogni forma di discriminazione e violenza di genere.
Riprendendo la teoria elaborata da Marcela Lagarde sulle orme di Diana Russell, riteniamo che sia le azioni poste in essere da singoli uomini di violenza fisica, psicologica, economica, sia le norme o le prassi che sanciscono o provocano come effetto discriminazioni sociali o nel godimento di diritti o nell’accesso ai beni per le donne, tutti questi atti, allo stesso modo, rappresentano forme diverse di esercizio di potere maschile sulla donna. Questi atti vengono posti in essere allo scopo che il comportamento della donna risponda alle aspettative dell’uomo e della società (patriarcale), che la vorrebbero riconosciuta esclusivamente in funzione del ruolo sociale che è chiamata a ricoprire in ragione del suo essere donna: il ruolo di madre, moglie, figlia, oggetto sessuale.
Queste forme di controllo sociale annientano l’identità privata e pubblica della donna, assoggettandola fisicamente o psicologicamente, economicamente, limitandone la sfera di autodeterminazione giuridicamente, politicamente, socialmente: in tal modo costituiscono il principale ostacolo alla autodeterminazione ed al godimento dei diritti fondamentali di più di metà della popolazione mondiale.
Questa visione onnicomprensiva della violenza di genere è ripresa anche dall’art. 1 della CEDAW, la Convenzione per l’Eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, in cui si afferma che “l'espressione "discriminazione nei confronti della donna" concerne ogni distinzione esclusione o limitazione basata sul genere, che abbia come conseguenza, o come scopo, di compromettere o distruggere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio da parte delle donne, quale che sia il loro stato matrimoniale, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo, su base di parità tra l'uomo e la donna”.
Per questo, è importantissimo essere qui oggi e fornire una lettura del fenomeno della violenza maschile sulle donne in Italia e nel mondo, delle discriminazioni di genere, declinandole come violazioni dei diritti umani.
Le donne di tutto il mondo negli ultimi due secoli hanno intrapreso con forza un percorso politico e giuridico volto all’affermazione che i diritti delle donne sono diritti umani.

Molto spesso tuttavia le attiviste che negli anni hanno lottato per i diritti delle donne, sono state viste come attiviste che lottavano per rivendicazioni “parziali” e non per il riconoscimento dei diritti fondamentali di più di metà della popolazione mondiale.
Là dove ancora oggi le donne sono oppresse e i diritti fondamentali vengono loro negati per legge, è possibile perché in quel luogo, ancora, come da sempre, la condizione delle donne viene ritenuta un fatto legato alla tradizione, alla cultura, alla religione, non un qualcosa che concerne i diritti fondamentali di esseri umani, che riguarda l’intera società. Dunque, ancora oggi in molti Paesi del mondo la discriminazione e l’esclusione delle donne dal godimento dei diritti fondamentali, essendo considerata un fattore legato alla tradizione, viene perpetrata anche dalle Istituzioni, attraverso la legislazione e l’amministrazione della giustizia, senza essere considerata una grave lesione dei diritti fondamentali della Persona, fonte di responsabilità e di obblighi precisi assunti attraverso la ratifica di Convenzioni internazionali.
Giustamente Simona prima faceva notare come, anche in termini lessicali, è stato davvero difficile passare dal riconoscimento dei diritti dell’uomo nell’ambito del diritto internazionale, al riconoscimento dei diritti umani, come anche inclusivi dei diritti delle donne.
Questo ragionamento vale sicuramente anche per la CEDAW, che originariamente nasceva come Dichiarazione, e soltanto nel 1979 veniva ufficialmente adottata come Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne. Il passaggio da “carta dei diritti” a Convenzione è stato fondamentale perché, potendo essere ratificata dagli Stati, la CEDAW ha fatto ingresso negli ordinamenti giuridici interni con valore di fonte giuridica primaria, produttiva di obblighi giuridici e vincoli istituzionali per gli stati. Non più soltanto un impegno politico degli Stati per il riconoscimento dei diritti umani alle donne, ma un’obbligazione internazionale.
Qualora uno Stato adotti senza riserve la Convenzione ed il Protocollo Opzionale, esso si obbliga non solo nel creare le condizioni (abrogando norme discriminatorie o prevedendo leggi ad hoc là dove manchino) per il riconoscimento giuridico dei diritti fondamentali (diritto al voto, alla proprietà terriera, i pari diritti nel matrimonio, il diritto all’accesso all’educazione alle donne, ecc.) ma anche si impegna al fine di rendere effettivo per le donne il godimento di questi diritti.
Nel nostro ordinamento la CEDAW è stata ratificata con la legge n. 132 del 14 marzo 1985 ed è entrata in vigore dal 10 luglio 1985. Ha valore di fonte costituzionale, ed i principi affermati nella Convenzione fungono come parametri interposti nel giudizio di legittimità costituzionale sulle norme interne.
Poiché l’Italia ha aderito senza riserve anche al Protocollo opzionale, la Convenzione per noi rappresenta anche un importante strumento di monitoraggio dell’impegno dello Stato nella promozione di azioni positive di contrasto alla discriminazione di genere e per favorire la realizzazione del diritto di ogni donna e bambina ad una vita libera da ogni forma di violenza.
Come giustamente osservava Titti Carrrano nel suo intervento, noi in Italia abbiamo una legislazione che formalmente garantisce alle donne le cosiddette “pari opportunità”, i diritti fondamentali, siamo dunque soggetti di diritto. Non è una cosa scontata.
Tuttavia in Italia, come in molti altri Paesi sviluppati, nonostante i principi della CEDAW siano stati declinati in una normativa interna “di pari opportunità”, di fatto la donna viene ancora discriminata ed è soggetta a violenza quotidiana

Qui come altrove i diritti fondamentali delle donne a livello normativo sono riconosciuti, quello che manca è una concreta attuazione del quadro normativo esistente, e lo stanziamento di fondi adeguati, che garantiscano alle donne il concreto godimento dei loro diritti. Una realizzazione di pari possibilità di autodeterminazione nel pubblico e nel privato che è ostacolata di fatto dal persistere diffuso di una cultura patriarcale, ancora egemonica.
Ed è proprio questo che a ci unisce qui, donne provenienti da molte parti del mondo, e diventa il perno centrale della campagna.
E’ per questo che anche noi come attiviste italiane abbiamo scelto con forza di ricordare questo appuntamento, i trent’anni dall’adozione della CEDAW, con una campagna di sensibilizzazione, perché oggi il tema cruciale nella battaglia contro la discriminazione di genere è proprio insistere per l’eliminazione di quegli ostacoli “materiali” che impediscono alle donne il godimento in concreto dei diritti fondamentali che pure vengono loro riconosciuti.
Ad oggi, la donna è di fatto discriminata: fatica ad accedere alle cariche pubbliche, è colei che -ci dicono le statistiche- subisce maggiormente la crisi, ha una posizione maggiormente precaria per quanto concerne il lavoro, viene retribuita con un salario minore a parità di mansioni, viene rappresentata come oggetto sessuale, è oggetto di avances indesiderate dai suoi superiori, resta la responsabile in via principale del lavoro domestico e della crescita dei figli.
Ancora oggi le norme in materia di pari opportunità, anche nei paesi europei, spesso non sono pensate avendo come obbiettivo la promozione dei diritti della donna, la creazione di strumenti per consentire alla donna di uscire da situazioni di violenza, di discriminazione sociale, economica, politica etc. ma sono pensate piuttosto al fine di tutelare la donna come “soggetto debole”. Molto spesso di fatto le norme di contrasto alle discriminazioni ed alla violenza di genere divengono uno strumento di consenso politico, e di fatto, tacciandosi per politiche “di genere”, strumentalizzano la donna e le dimensione del femminicidio per aumentare il controllo sociale e la repressione dell’immigrazione clandestina, sulla base del falso pregiudizio –smentito da tutte le statistiche- che la maggior parte delle violenze sia posta in essere per strada da stranieri. Senza avere il tempo di spiegare analiticamente la ratio e i contenuti della norma, mi limito a richiamare in tal senso le modalità di normazione adottate nel nostro paese in materia di violenza sessuale ed i contenuti dei recenti pacchetti sicurezza.
E’ chiaro che è in atto una forte strumentalizzazione di quello che è il problema della violenza sulla donna. La rappresentazione falsata e stereotipata della realtà, è possibile perché in Italia non vengono stanziati fondi sufficienti per elaborare statistiche e finanziare osservatori permanenti. Dalle poche statistiche che abbiamo però sappiamo che in Italia soltanto l’11% delle uccisioni di donne viene commesso da sconosciuti al di fuori delle mura domestiche, e soltanto il 7 % degli stupri viene fatto su strada. (Nel 2008, il 54% dei femminicidi è stato commesso dal partner o ex partner, il 21% da altro parente, il 14% da altra persona conosciuta, l’11% da sconosciuti). Il che significa che su 10 omicidi di donne, 7 sono femminicidi commessi per mano di partner, ex, o famigliare della vittima. I dati per gli stupri sono analoghi.
La violenza maschile sulle donne avviene tra le mura domestiche e nell’ambito delle relazioni coniugali perché in Italia come in altri paesi europei, nonostante l’evoluzione normativa, è ancora forte l’idea che la donna debba essere legata al ruolo di madre e di moglie, di cura della famiglia oppure valga solo in quanto oggetto sessuale, ancora si parla di donne per bene e donne per male. Nel momento in cui la donna sceglie invece di autodeterminarsi e di allontanarsi da situazioni di denigrazione, di controllo, aumenta la violenza fisica, inizia lo stalking. Nel momento in cui nasce un conflitto della coppia questo conflitto si trasforma in forme di controllo economico, di violenza psicologica, di violenza fisica, che arriva fino all’uccisione della donna.
Per questo il problema, come giustamente notava Titti Carrano, è un problema di carattere culturale: il problema è ancora l’eliminazione di una mentalità patriarcale che vuole la donna ancora legata ai ruoli tradizionali, sia nel quotidiano privato che nell’immaginario erotico di corpo disponibile.
Questo immaginario sessista attraversa tutte le culture: è universale la volontà di controllo della donna come “risorsa creativa”, come “fattrice”, e dunque come perno della famiglia e della società stessa. Fino a quando, in nome della religione o in nome del bene superiore della collettività, gli Stati sacrificheranno la libertà e l’autodeterminazione della donna alla tutela della “morale” e della “famiglia”, alla protezione della donna in funzione del suo ruolo sociale di madre e moglie, i diritti fondamentali delle donne continueranno ad essere calpestati.

Gli stereotipi di genere sono ad oggi ancora radicatissimi e manca una volontà politica di agire, sia in senso giuridico che culturale, per eliminarli.
Dove vi è una connivenza istituzionale al machismo, alla misoginia, a patriarcato, vi è una
responsabilità di Stato. In Messico, il femminicidio è un crimine di Stato. Lo ha stabilito la CIDH in una recente sentenza sollecitata proprio dalle ONG a tutela dei diritti umani e dalle madri delle vittime di Ciudad Juarez.
Ma non solo, l’elenco degli “stati canaglia” che opprimono le donne sarebbe lungo.

Per questo, è necessario valorizzare la CEDAW come lente di analisi che evidenzi dove ancora si annida di fatto la discriminazione, per quanto riguarda gli aspetti presi in considerazione in tutti gli articoli.
La Convenzione è un importantissimo strumento politico per richiamare il Governo ad una corretta gestione delle risorse riservate alle politiche di pari opportunità, e per verificare che gli obbiettivi delle politiche e della normazione in materia di pari opportunità rispondano alle linee guida indicate periodicamente dal Comitato per l’applicazione della CEDAW.
Gli Stati che hanno ratificato la CEDAW e le altre carte regionali, si sono assunti un obbligo ben preciso: adoperarsi affinché le donne abbiano cittadinanza, ovvero affinché possano in concreto godere dei loro diritti fondamentali. Il che implica per lo Stato l’obbligo di attivarsi per rimuovere le situazioni discriminatorie non solo attraverso modifiche normative ma anche e soprattutto promuovendo un cambiamento culturale, riconoscendo che la libertà di scelta della donna, la sua integrità psico-fisica, sono valori assoluti, che vanno riconosciuti senza compromessi.

La nostra responsabilità, in quanto donne e in quanto attiviste, è grandissima: ognuna di noi è chiamata sul proprio territorio a reclamare che il silenzio e l’inattività degli Stati di fronte alle discriminazioni e violenze di genere che si consumano nei propri confini è una violazione dei diritti umani, che lede non solo le donne ma l’umanità tutta, perché ostacola lo sviluppo della democrazia e produce disuguaglianza e perdita di opportunità.

In Italia noi come Giuriste Democratiche abbiamo richiamato i principi della CEDAW in varie occasioni: nel proporre emendamenti al progetto di legge organica Bindi Mastella Pollastrini, nell’evidenziare le criticità del disegno di legge in materia di atti persecutori, nel censurare l’irruzione delle forze dell’ordine nel Policlinico di Napoli e l’accusa di feticidio nei confronti di una donna che regolarmente stava praticando l’IVG.
Abbiamo perfino proposto una interrogazione parlamentare a risposta scritta (On. Deiana, Dioguardi, De Simone, n. 4-02065 del 2006) per chiedere perché le Raccomandazione provenienti dal Comitato per l’applicazione della CEDAW non fossero state né tradotte, né diffuse, né poste alla base dei lavori parlamentari in materia. Ovviamente, ad oggi non abbiamo avuto risposta.
Più recentemente, abbiamo richiamato i principi del Comitato e le Raccomandazioni del Comitato per l’applicazione della CEDAW per chiedere la rimozione di una infausta e sessista pubblicità che era stata utilizzata dai poli romagnoli dell’Università di Bologna per promuovere le immatricolazioni. Questa pubblicità rappresentava quattro ragazze su sfondo bianco, che rappresentavano le quattro sedi romagnole dell’Università di Bologna, vestite da power ranger, da fantastiche quattro con delle tutine attillate, bianche, trasparenti, da super eroina, con il nome della città in bella vista all’altezza del seno, ovviamente sorretto da wonderbra. Lo slogan era: Le Fantastiche 4 - Cesena, Forlì, Ravenna, Rimini - Il massimo per i tuoi studi universitari. Quindi un’immagine molto sessualizzata, erotica, che richiamava al fatto che la riviera romagnola è internazionalmente conosciuta come luogo di divertimento e dunque andare all’università lì avrebbe concesso ai giovani immatricolandi di godere di quelle bellezze, “il massimo”, secondo chi ha ideato la campagna evidentemente, che un ragazzo fuorisede si aspetta nella sua esperienza universitaria. Aldilà dell’interpretazione che se ne voglia dare, è evidente che la pubblicità delle “Fantastiche4” è lesiva della dignità della donna e discriminatoria, in quanto veicola stereotipi di genere. Noi nel chiedere la rimozione dei manifesti e il ritiro della campagna pubblicitaria, divenuta poi caso nazionale, abbiamo richiamato all’attenzione delle istituzioni e delle Università proprio il fatto che questa pubblicità era discriminatoria in quanto contrastava con i principi sanciti dalla CEDAW e ribaditi dalle raccomandazioni all’Italia del 2005, oltre che con la Carta europea per le pari opportunità nelle vita locale, Carta a cui il Comune di Ravenna aveva aderito.
Questi erano semplicemente esempi di come anche in Italia sia possibile attivarsi chiedendo il rispetto e l’attuazione dei principi sanciti dalla CEDAW non solo da parte delle Istituzioni ma anche da parte degli enti pubblici, degli enti locali, dei privati.

La CEDAW vive nel momento in cui ognuna di noi riconosce nel fatto che le accade, o che accade nella propria comunità, la concreta lesione di uno dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione, e, riconosciutolo, lo denunci in quanto tale, sia politicamente sia anche utilizzando le procedure specifiche previste dalla Convenzione.
Mettersi in rete, invocando ognuna nei propri Paesi il rispetto e l’attuazione dei principi sanciti dalla CEDAW, significa essere unite nella lotta alle discriminazioni e violenze di genere, concretamente, per costruire una società migliore, libera da ogni forma di oppressione.